In zona Renzi spira un vento di riforme del mercato del lavoro. Ma di quali riforme? Il neosegretario del Pd, in campagna elettorale, aveva fatto della semplificazione della normativa e del rilancio dell’occupazione alcune tra le sue bandiere. Ma non era mai sceso nei particolari. Qualche dettaglio in più lo hanno fornito i suoi. La sua segreteria sta mettendo a punto il job act, un pacchetto di misure che dovrebbe rivoluzionare il sistema. Il responsabile Welfare, Davide Faraone, in particolare, aveva fatto sapere che «la stella polare è il modello scandinavo, la flexicurity, che avevamo già lanciato 4 anni fa alla Leopolda». Tra i principi cardine dello schema renziano, in un primo momento, c’era l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti: si era parlato, nei casi di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo, di lasciare come tutela solamente l’indennizzo e di cancellare del tutto la possibilità di reintegro. Tutto questo, per favorire la lotta al precariato. Secondo i renziani, i  datori di lavoro potrebbero offrire ai nuovi assunti, a fronte della perdita di alcune tutele, contratti a tempo indeterminato e stipendi più alti. Idee destinate a incendiare il clima sociale. Renzi, infatti, accortosene immediatamente, ha fatto, successivamente, una parziale retromarcia e ha fatto sapere che, in realtà, il problema non è affatto l’articolo 18, ma creare nuovi posti di lavoro, garantendo sussidi e una veloce ricollocazione a chi non ce l’ha.  Abbiamo fatto il punto sulla situazione con Tiziano Treu, professore di Diritto del lavoro presso l’Università Cattolica di Milano.



Cosa ne pensa delle proposte dei renziani?

Parlare di “modelli”, tanto più se scandinavi, significa già di per sé partire con il piede sbagliato.

Lei cosa suggerisce?

Di pensare, seriamente, a tutte quelle misure che siano adeguate e applicabili al sistema italiano. Magari, tenendo in considerazione i provvedimenti adottati dagli altri paesi europei; non necessariamente quelli del nord. Quelli a noi più vicini vanno benissimo. Anzitutto, quindi, va tenuta presente tale impostazione di metodo.



Nel merito, invece, come valuta la flexicurity?

È una gran bella cosa. Quella europea, però, presuppone anzitutto che ci sia la “security”.

Cosa intende dire?

In Italia, le tutele previste per i disoccupati sono del tutto parziali. Milioni di persone non possono godere di alcuna garanzia. Per prima cosa, occorre estendere universalmente gli ammortizzatori sociali. Inoltre, vanno implementati e potenziati tutti quegli strumenti che consentano, a chi è senza lavoro, di ricollocarsi nel minor tempo è possibile.

In tal senso, Renzi ha parlato della necessità di potenziare i sussidi di disoccupazione, legandoli a sistemi efficienti di ricollocamento



In effetti, si dovrebbero rafforzare e rendere capaci di fornire almeno i servizi di base i Centri per l’impiego e, in prospettiva, dare luogo a un’agenzia nazionale del lavoro, come già esiste in Francia e in Germania. Questa agenzia, ovviamente, dovrebbe lavorare in stretta collaborazione con quelle private.

 

Tutto questo può essere fatto a costo zero?

No, naturalmente. Ma le risorse destinate alle politiche attive del lavoro vanno considerate come un investimento. È evidente che se venisse realizzata una grande infrastruttura sociale in grado di aiutare le persone a trovare un impiego, si determinerebbe un indotto immediato: lo Stato, infatti, spesso deve farsi carico del disoccupato. Se questo torna occupato, riprenderà a pagare le tasse, e con più soldi in tasca potrà riprendere a consumare. La Danimarca, investendo parecchio in politiche di security, ha dovuto spendere molto meno in ammortizzatori sociali.

 

Realizzata la security, si potrebbe procedere alla rimozione dell’articolo 18?

L’articolo 18 è già stato cambiato in maniera sostanziale. Il reintegro, per esempio,non è più frequente come un tempo. Inoltre, la giurisprudenza rispetto alla nuova normativa ancora non si è consolidata. Personalmente, non ho alcun pregiudizio rispetto a un’altra eventuale modifica. Attualmente, tuttavia, è prematuro parlarne. Ancora non conosciamo nel dettaglio gli effetti dell’ultima riforma. Non credo, inoltre, che si tratti di una questione così determinante.

 

Ci spieghi.

Ribadisco quanto sostenevo già due anni fa: per il sistema produttivo non è così importante la flessibilità in uscita o quella in entrata quanto, piuttosto, quella funzionale. Parlo della flessibilità interna al rapporto di lavoro, in termini di orari, turni e mansioni. Francamente, quindi, non mi impantanerei nell’ennesima guerra di religione sull’articolo 18.

 

(Paolo Nessi)

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