«Quelli di Renzi sono solo slogan. L’occupazione non si rilancia né con il contratto unico, né con la flessibilità in entrata e in uscita. Ciò che occorre è una riforma che preveda agevolazioni per la riqualificazione dei lavoratori e minori rigidità nell’organizzazione dell’azienda». Lo sottolinea Maurizio del Conte, professore di Diritto del lavoro all’Università Bocconi, a proposito dell’attuale dibattito sul Job Act proposto da Renzi. I dati documentano che le recenti riforme del lavoro in Spagna, Portogallo e Grecia hanno ridotto notevolmente il costo del lavoro pur senza creare nuovi posti. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, è intervenuto sulle proposte del segretario del Pd, sottolineando come “noi abbiamo incentivato la trasformazione di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. Il contratto unico non può essere la sola strada ma può essere un aiuto. Comunque non c’è uno strumento che può valere per tutte le imprese”.



Professor Del Conte, che cosa ne pensa di quanto affermato dal ministro Giovannini?

Sono d’accordo con lui, in quanto la complessità dei rapporti di lavoro è irriducibile a un’unica fattispecie. Invece di compiere un’opera di semplificazione, con il contratto unico si rischia di fare del semplicismo creando ulteriori problemi. L’idea che “One size fits all” va bene per i berrettini da baseball, ma non per i contratti di lavoro. Bisogna conoscere il mercato del lavoro e sapere quanto è complesso per capire che c’è bisogno di apprendisti, contratti a termine, collaborazioni autonome, contratti a tempo indeterminato e somministrazione. Non mi farei quindi trascinare dall’idea del contratto unico, perché mi sembra più uno slogan che una soluzione.



Perché la flessibilità non produce occupazione?

Per quanto si voglia intervenire sulla disciplina dei licenziamenti e dei contratti d’ingresso, ciò non muta il saldo complessivo degli occupati. Lo documenta un’osservazione di lungo periodo. Se noi guardiamo alle varie riforme del lavoro realizzate in diversi paesi nel corso degli anni, notiamo come in realtà non abbiano modificato i numeri dell’occupazione.

Quanto incide il cuneo fiscale sulla possibilità delle imprese di fare nuove assunzioni?

Certamente un costo eccessivo del cuneo fiscale rappresenta un freno all’economia e come conseguenza indiretta anche all’occupazione. Ritengo che il sistema vada reso più conveniente per le imprese, lavorando sul cuneo fiscale in modo strutturale. Bisogna smetterla di concentrare l’attenzione delle riforme sull’ingresso e sull’uscita dal mercato del lavoro, come fa ancora una volta il progetto del Job Act di Renzi. Non esiste infatti la possibilità di agire sulle regole del mercato del lavoro, se prima non c’è il lavoro stesso.



 

Lei quindi quale riforma del lavoro propone?

Negli ultimi anni abbiamo sempre assistito a riforme che vanno a modificare le regole dei flussi, ma non siamo stati in grado di introdurre una legge che faccia funzionare il lavoro meglio e in modo più efficiente. È maturo il tempo per passare da una riforma del mercato del lavoro a una riforma del lavoro, cioè del modo in cui quest’ultimo funziona, si articola, si struttura e si organizza in azienda. Questa è la vera sfida, e non invece ritornare sull’articolo 18, che, come ci insegna la storia degli ultimi anni, procura soltanto grandissima confusione, ma non aggiunge un solo posto di lavoro in più.

 

In che modo una legge può intervenire sul modo in cui si lavora in azienda?

Una riforma in questo senso può favorire la realizzazione di contesti organizzativi sempre più partecipativi e sempre meno conflittuali. Le imprese italiane hanno ancora un modello di organizzazione del lavoro eccessivamente gerarchizzato, vincolato dalle strutture aziendali, poco flessibile nelle dinamiche interne, nella possibilità di muoversi da un settore all’altro e di crescere sotto il profilo della carriera professionale.

 

Fino a che punto le dinamiche interne a un’impresa dipendono dalle leggi?

Le nostre leggi sono poco utili alle aziende nel momento in cui si rende necessaria una ristrutturazione non in termini di numero di dipendenti, bensì dal punto di vista qualitativo chiedendo al personale di riqualificarsi. L’Italia non ha strumenti legislativi che agevolino le aziende con detrazioni sulle spese di riqualificazione. Abbiamo un sistema normativo che non contempla l’idea di un’azienda dove a prendere le decisioni non sia solo il vertice supremo, ma anche i livelli intermedi con uno spazio di autonomia che per il momento ci sono preclusi.

 

(Pietro Vernizzi)

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