Gli italiani, ci informa il Censis attraverso il suo 47° rapporto, hanno oramai come unica chance la sopravvivenza. Venendo meno, con la crisi, le certezze economico-sociali, ma, prima ancora, alcuni punti fermi dal punto di vista personale e relazionale, la sopravvivenza sarebbe l’unico comandamento ancora condiviso. Senza pensieri lunghi, senza speranze da invocare. Questo perché, dicevo, sul piano delle convinzioni non vi sono più certezze inattaccabili, o evidenze etiche da richiamare, ma solo lo sguardo dell’oggi per l’oggi. E il domani? “Mo’ vediamo”.



C’è poi la questione lavoro, come forma essenziale, anche se non totalizzante, di autorealizzazione, al di là del semplice dato occupazionale, che rappresenta la nostra vera spina nel fianco. Perché chi il lavoro ce l’ha se lo tiene stretto, ancora invocando vecchi privilegi come diritti acquisiti, e tutti gli altri a dover elemosinare, quando va bene, un qualche posticino, un qualche frammento contrattuale. Per la pura sopravvivenza.



Disagio sociale, precarietà e sottoccupazione rappresentano un bel mix, che potrebbe esplodere da un momento all’altro, perché queste situazioni oramai toccano il 29,5% dei lavoratori, cioè 3,5 milioni di persone. Senza dimenticare i 4,4 milioni di italiani che, pur desiderandola, non riescono a trovare una qualche opportunità di lavoro: per il Censis sono 2,7 milioni quelli che cercano attivamente, concretamente, un lavoro ma non lo trovano, un +82% rispetto al 2007; e 1,6 milioni gli italiani che non cercano più, convinti che comunque non lo troveranno. In questa situazione, c’è chi sta tentando la via dell’estero. Sono raddoppiati, così, coloro che negli ultimi dieci anni hanno trasferito la loro residenza in un altro Paese: da 50.000 a 106.000, con un +28,8% negli ultimi due.



Che fare, dunque, di fronte a questa situazione? Se ci limitiamo a seguire la scena politica, lo scoraggiamento non può che crescere: a fronte di un aumento del 9,9% di disoccupati in un solo anno, oltre 1 milione under 30, la nostra politica si divide per uno “zero virgola” sui nuovi acronimi dell’Imu! Non solo: un emendamento fatto approvare e inserito nella Legge di stabilità 2014 prevede che 30 milioni di fondi europei, previsti per combattere la disoccupazione giovanile, vengano invece utilizzati, quindi un abuso, per prorogare i contratti a termine degli uffici di collocamento.

Se si vuole, si potrebbe continuare, ma il caso appena richiamato sui Centri per l’impiego ci può aiutare, meglio di altri esempi, a rispondere alla domanda sul “che fare”. Nel senso di una chiarificazione di un punto che è controverso da noi: ha ancora senso attribuire al servizio pubblico un compito che, per sua natura, richiede competenze e flessibilità che il pubblico, purtroppo, oggi non può o non è in grado di garantire? Parlo qui delle modalità di assistenza ai lavoratori in difficoltà in vista di un loro reinserimento o inserimento nel mercato del lavoro, attraverso una riqualificazione che tenga a mente gli “skill shortages”, cioè quelle “carenze di abilità” che, una volta accertate, possono produrre richieste di nuovi profili occupazionali.

È così complicato immaginare una sperimentazione delle Regioni con “contratti di ricollocazione”, riprendendo quindi esperienze del nord-Europa? Non basta, cioè, puntare sulle politiche passive del lavoro, col semplice sostegno al reddito, ma ci vogliono anche le politiche attive, in vista di forme concrete di inserimento nel mondo del lavoro. Con sussidi condizionati da questi effetti concreti, non a prescindere. Un grande limite non solo italiano. Per spingere all’accertamento non delle intenzioni, ma dei risultati, dati alla mano, si potrebbero prevedere agenzie private di “outplacement” (accompagnare le persone in uscita da un’azienda verso nuove opportunità professionali), mediante voucher erogati dalle stesse Regioni e riscattabili solo sulla base degli effettivi inserimenti, quindi con concreti posti di lavoro. Ma forse ha ragione Romano Prodi, che pochi giorni fa ha detto: “La nostra ossessione di mettere recinti ci ha impedito di fare quello che avremmo potuto fare”.

Che dire dunque ai giovani di oggi? Il nostro compito, anzitutto, è far comprendere che il lavoro non è uno status, ma un percorso dinamico fatto di compiti, ruoli e modalità che potranno, nel corso della vita, essere diversi, oltre l’immobilismo da posto fisso che è radicato nella cultura corporativa italiana. In questi anni, ad esempio, non sono scomparse le opportunità di lavoro. È che sono state messe in secondo piano perché sono carenti, nel nostro contesto ordinamentale e sociale, reali forme di orientamento in itinere, secondo percorsi formativi dinamici, aperti, vincolati, però, a prove e certificazioni di “pari merito”, per garantire “pari opportunità”.

Nonostante gli angoscianti dati sulla disoccupazione, in particolare giovanile, stabile a oltre il 40%, non mancano, appunto, occasioni occupazionali reali. Il problema, in Italia, è che queste occasioni sono, solitamente, coperte da alcune reti amicali, parentali, anche professional-corporative. I Centri per l’impiego incidono solo per il 3% sui posti di lavoro assegnati.

Ai giovani va detto chiaramente che non devono, sulla base di un titolo di studio, aspettare lungo il fiume che determinate “occasioni” si presentino, quasi come “manna dal cielo”. Per cui non hanno più senso certe manifestazioni con richieste, a gran voce, allo Stato, di “lavoro, lavoro, lavoro”. Perché il lavoro non si crea per decreto, a meno di non appesantire ulteriormente il debito pubblico. Ai giovani va detto che è buona cosa seguire un iter progressivo, anche, se necessario, partendo dai lavori più umili. Perché tutto fa curriculum, potremmo aggiungere. In realtà, tutto fa esperienza di vita. Perché tutto il mondo del lavoro, in se stesso, è formativo.

Allora, dovremmo tutti rispondere come Spinoza (“ogni uomo dotto che non sappia anche un mestiere diventa un furfante”) alla convinzione di Leibniz, secondo cui “la cultura libera dal lavoro”. Troviamo qui sintetizzato il male italiano, riprodotto fedelmente, ancora oggi, dal nostro sistema scolastico, ancora troppo lontano dal “valore-lavoro”. Inutile poi lamentarci se la disoccupazione giovanile è così sconvolgente, rispetto al 4% austriaco e al 7% tedesco.

In una recente ricerca di Eurobarometro, curata dal Parlamento europeo, alla semplice domanda “Ti attendi un lavoro con attività manuale?”, i giovani svedesi hanno risposto per il 40% in modo affermativo, quelli italiani solo il 5%. Senza dimenticare che in Svezia i lavori manuali toccano il 42% delle persone, e in Italia il 50%. Il che ci porta a dire che i nostri giovani devono essere aiutati a scelte funzionali agli sbocchi professionali, anche con vere prove d’ingresso. Cosa scontata in Europa, impossibile in Italia, anche se poi ci lamentiamo della dispersione e della mortalità scolastica.

Quanti titoli di studio senza reali opportunità, quanti giovani con pezzi di carta senza alcuna speranza concreta? Eppure, per il solo Veneto, sono ancora oggi 45.000 le offerte di lavoro, secondo la Cgia di Mestre, che rimangono scoperte, senza dimenticare profili professionali specializzati che restano senza risposta. Per cui, paradossalmente, abbiamo giovani scoraggiati (i famosi Neet), ma abbiamo anche molti imprenditori o datori di lavoro che sono scoraggiati. Tutto il sistema formativo deve dunque riscoprire il suo valore orientante, oltre i vincoli e gli ostacoli attuali. Con uscite laterali progressive, nel rispetto delle aspettative, delle competenze, delle opportunità.

Le scuole superiori, dunque, non devono essere solo quinquennali. Oltre ai Cfp regionali, gli istituti professionali devono ritornare a poter certificare al terzo anno, e tutti gli altri indirizzi, per coloro che lo desiderano, devono poter garantire, per coloro che lo richiedono, gli esami di maturità a 18 anni. Soprattutto per coloro che pensano alla frontiera europea e internazionale, in termini di alta formazione.

L’unica novità positiva, in questi termini, sono gli Its, cioè i percorsi post-diploma biennali, afferenti al V livello EQF, in grado di garantire, anche oggi, il 70% di contratti a tempo indeterminato ai propri studenti. Solo perché prevedono il 50% del lavoro teorico in aula, e il 50% nei laboratori aziendali. Percorsi, dunque, differenziati, a più uscite, per venire incontro alle esigenze di tutti. Perché due sono le domande chiave, che non vanno mai dimenticate: le nuove domande formative dei giovani di oggi, e la reale occupabilità dei titoli di studio. Quanti, tra coloro che lavorano nei percorsi formativi, conoscono questi problemi?

Sapendo bene, comunque, che i migliori anni, sul piano dell’energia e della creatività, per i nostri giovani, vanno dai 22 ai 28 anni, noi dobbiamo, per i migliori, garantire anche la possibilità di scegliere, secondo pari dignità, anche la possibilità dell’estero, sulla base di titoli di studio e competenze verificabili. Sempre nella speranza che ritornino, più formati di prima, perché forgiati dalla vita.

Saprà l’immobilismo tutto italiano, tutto autoreferente e chiuso a riccio, guardare oltre anche i propri limiti? Per dare una mano concreta ai nostri ragazzi…