«Il destino dei giovani è quello di un Paese. Eppure l’Italia li sacrifica, li esclude». Così esordisce Enrico Mentana in questa intervista a ilsussidiario.net nel commentare i dati sulla disoccupazione giovanile (36,6%) mensilmente diffusi dall’Istat. Non si tratta naturalmente di nulla di nuovo, essendo ormai da diversi anni che la condizione giovanile ha raggiunto numeri abnormi (ricordiamo anche gli oltre 2 milioni di Neet, corrispondente al 21,5% dei giovani tra i 15 e 29 anni). «Ovunque, nel mondo del lavoro, nella politica, nell’università – prosegue il Direttore del Tg La7 – di fronte a loro si organizzano forme di sbarramento e autoprotezione».



Il problema riguarda loro per primi, ma anche il futuro della nostra società ed economia…

Questo è il problema dei problemi: l’assenza di massa di un’intera generazione dal lavoro sta modificando la struttura del nostro modello sociale in modo devastante, benché ancora poco visibile. Da un lato, le aziende non si rinnovano, la società non sfrutta la spinta innovativa – e sanamente competitiva – delle nuove generazioni. Ogni giorno perdiamo posizioni in tutti i settori più innovativi dell’imprenditoria perché i dirigenti non sono in grado di capire le nuove tecnologie come saprebbero fare i nativi digitali.



E loro?

Dall’altro lato, gli stessi giovani non sviluppano la carica antagonista che sempre ha fatto da propellente sul costume, sulla cultura e sulla stessa politica del nostro come degli altri paesi. Questo è il vero impoverimento che stiamo vivendo, e intacca più la nostra sostanza di nazione che il nostro risparmio, più il nostro futuro che il nostro presente.

Che caratteristiche hanno avuto “presente” e “futuro” per la sua generazione?

Una volta il futuro era nostro. Oggi, quelli che dovrebbero ereditarlo non sanno neanche più protestare: ai giovani mancano i riferimenti perché sono costretti a vivere in una società che non è la loro, ma quella dei loro genitori. Privi di punti di contatto con un mondo reale che è loro estraneo, non hanno alcuna forza antagonista, vivono nella società, come in famiglia, come il gatto di casa: a proprio agio, ma senza voce in capitolo. Manca la dialettica tra loro e la società, e questo produce falsi miti da combattere: i cattivi maestri ci sono sempre stati, ma oggi mancano a un’intera categoria sociale gli strumenti per metterli in discussione.



Colpa delle famiglie e della nostra “cultura”, come sostengono alcuni, o del malfunzionamento dell’economia e del nostro sistema di welfare?

In realtà, il problema è profondo e la soluzione non può essere semplice: occorre rivitalizzare la società affrontando due problemi, quello delle competenze da valorizzare e utilizzare, da un lato, e dall’altro, quello di una casta da sradicare. Definitivamente. Tra dieci anni tre quarti dei giovani, che a quel punto non saranno nemmeno più giovani, si saranno trasformati in un’enorme, indistinta generazione di “sfigati” probabilmente sovvenzionati dallo Stato, in un nuovo tipo di Stato assistenziale e plebiscitario. Non è da molto tempo che si è presa coscienza del fatto che le loro aspettative di futuro lavorativo, di condizioni di vita per la prima volta saranno più fosche rispetto a quelle del passato. Trent’anni fa chiunque non fosse stato balbuziente o deficiente poteva fare il giornalista, oggi neanche un plurilaureato ad Harvard è sicuro di farcela, in Italia. E questo vale anche per tante altre cose.

Come le sembra che la politica stia affrontando il problema in questo momento caldo di campagna elettorale?

Nessun partito, nessun movimento, nessuna lista ha sviluppato idee o proposte mirate per i giovani che possano davvero invertire almeno in parte la tendenza. Intendiamoci, nel programma del Movimento 5 stelle, nell’Agenda Monti e nelle proposte di Pd e Pdl ci sono punti che riguardano le nuove generazioni. Ma manca totalmente un’impostazione generale che faccia credere alla volontà di far fronte all’urgenza e della gravità specifiche della condizione giovanile.

 

Come va letta questa gravità?

Non siamo qui alle prese con una disoccupazione di massa in cui i giovani sono “pro quota” toccati dal fenomeno. Oggi in Italia il problema è completamente diverso: la crisi ha risparmiato in gran parte i lavoratori, i loro posti di lavoro, la loro cassa integrazione, la loro aspettativa pensionistica: ma allo stesso tempo ha piallato le speranze della grande maggioranza delle nuove generazioni, che oggi non hanno nessuna certezza sul loro futuro, neanche se hanno dalla loro lauree, master e curriculum in regola. Quello che ai primi tempi del fenomeno dei “polli di batteria” nei call center sembrava solo un periodo di limbo, una lunga fase di parcheggio per far sciogliere l’intoppo nel turnover generazionale del mercato del lavoro, si è via via trasformata in una condizione permanente di precarietà assoluta, sempre più evidente e allucinante se paragonata con la copertura di cui fruiscono i lavoratori delle generazioni precedenti, tutelati dalle leggi e dai contratti.

 

Secondo lei, i governi che si sono susseguiti hanno fatto qualcosa di buono a riguardo con le riforme che hanno promosso?

Tutte le trattative, anche le più spinose e difficili, sul mercato del lavoro, le pensioni, gli esodati, l’articolo 18 e via elencando, hanno visto la presenza dei rappresentati di governo, partiti, sindacati dei lavoratori e dei pensionati, organizzazioni dei datori di lavoro, dei commercianti, degli artigiani, delle cooperative. Tutti hanno cercato di difendere diritti e prerogative dei loro aderenti o affiliati, e comunque delle aree di rappresentanza delle loro categorie. Ma nessuno, nessuno, ha mai rappresentato la categoria dei giovani che bussano al mercato del lavoro. E se non puoi far sentire la tua voce in una trattativa, semplicemente non ci sei, come problema, come risorsa. E la coperta già cortissima delle garanzie e degli ammortizzatori non arriverà mai a coprire anche te. È quel che è successo negli ultimi anni, sia che governasse la sinistra, sia che governasse la destra: e ancor di più nell’ultimo anno, quando all’insensibilità dei partiti tradizionali si è assommata l’assenza di terminali sociali del governo dei tecnici.

 

Come facilitare il loro ingresso nel mercato del lavoro?

Da sempre in alcune professioni la successione e il ricambio sono garantiti dalla famiglia: il notaio lascerà lo studio al figlio, il taxista gli lascerà la licenza. Se però oltre a questi anche tutti gli altri posti di lavoro si ostruiscono, chi non è figlio di nessuno dove va? Per facilitare l’ingresso delle nuove generazioni nel mercato del lavoro occorre smontare gli attuali meccanismi di cooptazione.

 

Si dice che il 70% della nostra classe dirigente ha più di 64 anni…

L’esclusione sistemica dei giovani ha radici culturali, esacerbate certo dalla crisi, ma ben più antiche. Esiste una vera e propria “corporazione generazionale” che è decisamente più forte nelle istituzioni accademiche e politiche, ma anche nelle grandi professioni e nei centri del potere culturale. In questi settori più uno è importante, più è forte l’idea che debba restare in carica fino a ottant’anni, pur essendo completamente esentato dagli obblighi della funzione. Esiste un meccanismo di cooptazione inventato e consolidato dalla generazione del Sessantotto, proprio quella che ha fatto la rivoluzione contro i poteri costituiti. Le relazioni sono tutte impostate sull’omologazione e sul riconoscimento reciproco. Questo discorso certo vale soprattutto per i posti apicali, ma è ovvio che anche questi vadano liberati, per sbloccare il ricambio generazionale anche ai gradini inferiori della scala gerarchica. Esiste una classe dirigente allargata che è perfettamente solidale al di là della diversità di idee: in politica, ma non solo, esiste un meccanismo di cooptazione di vincitori e vinti, per cui sono ancora tutti lì da vent’anni.

 

Nella “Prima Rebubblica” era diverso?

 Nella vituperata Prima Repubblica la politica formava i suoi dirigenti attraverso quella che era la battaglia interna ai partiti, che avveniva a colpi di lotta di potere, ma anche di saperi, di linee che si contrastavano, di meccanismi di elezione e di cooptazione di figure nuove meritevoli. Vere scuole forgiavano funzionari, dirigenti e leader. La crisi delle ideologie ha portato via anche quei modi di formazione delle élites politiche. Con cosa sono stati sostituiti è purtroppo davanti ai nostri occhi.

 

Quali vie d’uscita?

La scolarizzazione di massa è stata l’unica vera cosa che ha cambiato la vita culturale del nostro Paese, insieme all’apertura delle università. A un certo punto il sapere è diventato contendibile, gli spazi della socializzazione e della partecipazione sono stati aperti al dialogo, al confronto. Da qui dobbiamo partire per scardinare i meccanismi di chiusura della società. È un problema di asfissia culturale. I cattivi maestri, e gli pseudo maestri, ci sono sempre stati. Poi però si cresceva e si faceva a pugni con il sapere acquisito dai padri.

 

Pur condividendo l’idea di fondo di una società anziana ed egoista, lo stesso Padoa Schioppa, che coniò il temine “bamboccioni” disse: “Se volete il mio posto venite velo a prendere, io non ve lo cedo”.

I giovani di oggi non hanno gli strumenti per farlo, e si appiattiscono sulle idee dei vecchi. Temono l’incertezza, più che in passato, sono terrorizzati dai rischi che il cambiamento porta con sé. Fossimo un Paese forte, cosciente e solidale ci occuperemmo di loro, e quindi del nostro stesso futuro, come abbiamo saputo fare per tutte le vere gravi emergenze nazionali della nostra storia. Spero solo che non sia troppo tardi.

 

(Giuseppe Sabella)