Come far crescere l’occupazione femminile? In questa intervista, l’economista Andrea Ichino spiega la proposta di tassazione differenziata di genere studiata insieme ad Alberto Alesina. Oltre a favorire la crescita dell’occupazione femminile, nella sua versione “soft” lascia alla famiglia la libertà di scelta circa la divisione dei carichi di lavoro domestici tra i partners. Con questo job sharing intra-familiare, lo “scambio tra i sessi” generato dall’incentivo fiscale avverrebbe interamente all’interno di ciascuna famiglia. Lo stesso Mario Monti ha adottato una linea simile; ma nei giorni scorsi, oltre a Repubblica, anche Emma Bonino ha affermato di non essere convinta dalla proposta di detassazione del lavoro femminile, sostenendo che tale questione va affrontata in termini di merito, non di quote.
Professor Ichino, su quali presupposti poggia la proposta di tassazione differenziata per genere?
Nella sua versione generale, la proposta si giustifica in virtù del principio secondo cui è possibile diminuire la pressione fiscale media, a parità di gettito, tassando di più i beni la cui offerta è rigida rispetto a quelli la cui offerta è flessibile. Innumerevoli studi economici mostrano che l’offerta di lavoro femminile, soprattutto nelle fasce economicamente deboli, reagisce in modo diverso da quella maschile rispetto a variazioni del salario. In particolare, gli uomini non riducono la loro offerta di lavoro quando la retribuzione diminuisce, mentre le donne iniziano a lavorare più volentieri o lavorano significativamente di più se già occupate, quando la loro retribuzione aumenta.
Quindi?
È quindi possibile tassare poco di più gli uomini, senza ridurre la loro base imponibile e aumentando il gettito da loro prodotto, per poter tassare molto meno le donne che in questo modo lavorerebbero di più. La minore aliquota sui loro redditi si applicherebbe a una base imponibile maggiore e quindi il gettito fiscale delle donne diminuirebbe poco. In altre parole, un governo che, come Mario Monti ha detto, volesse realizzare una riduzione della pressione fiscale per stimolare la crescita economica, otterrebbe risultati maggiori concentrando la riduzione sulle sole donne.
Ma il problema dell’occupazione femminile non è soprattutto un problema di scarsa domanda?
Il meccanismo della traslazione dell’imposta fa sì che una riduzione del prelievo fiscale sull’offerta si traduca almeno in parte in una riduzione del costo del lavoro, che quindi stimola la domanda. Il caso più evidente è quello dell’imprenditoria: se il lavoro delle donne fosse tassato meno sarebbe più facile per loro far nascere imprese. Ma non è certo l’unico esempio. Molti ritengono che tra i vincoli che impediscono la crescita della domanda di lavoro nel nostro Paese ci sia proprio l’eccessiva tassazione del lavoro. Ai tempi del governo Prodi si parlava di riduzione del “cuneo fiscale” per rilanciare l’occupazione. Gli effetti benefici della riduzione si ottengono più facilmente agendo sulla forza lavoro femminile. Quindi tanto vale concentrarla lì.
L’aliquota dei redditi maschili rimarrebbe invariata o aumenterebbe? Perché?
Non è necessario aumentare l’aliquota del prelievo sui redditi maschili. Questa è l’ipotesi che con Alberto Alesina abbiamo fatto (nel libro “L’Italia fatta in casa”, Mondadori 2009) per un contesto in cui sia essenziale tenere invariato il gettito fiscale complessivo. Si noti che anche in questo caso, di pari gettito, la pressione fiscale diminuirebbe perché la diminuzione dell’aliquota femminile sarebbe maggiore in valore assoluto dell’aumento di quella maschile. Tuttavia, nella proposta di Scelta Civica, c’è un impegno a ridurre non solo la pressione fiscale, ma anche il gettito a fronte di una corrispondente riduzione della spesa pubblica. In questo caso, è perfettamente ragionevole ridurre l’aliquota femminile senza toccare quella maschile, in modo da ottenere effetti espansivi maggiori.
In questa prospettiva il “soggetto fiscale” è la donna o la famiglia?
I soggetti fiscali sono gli individui, donne e uomini. Ma l’obiettivo “culturale” di lungo periodo della proposta è di influire su come i carichi di lavoro domestico sono divisi all’interno delle famiglie. Le donne lavorano in casa il doppio degli uomini. Da una ricerca che ho realizzato recentemente, finanziata da Valore D, è emerso che sommando il lavoro in casa e fuori, le donne faticano dai 30 ai 40 minuti in più al giorno. Anche gli uomini intervistati hanno riconosciuto senza ambiguità il maggior lavoro delle loro compagne. Data questa situazione, come possono le donne esprimere nel mercato del lavoro la stessa energia degli uomini? I comitati per le pari opportunità dovremmo farli in casa, non nelle aziende o negli uffici pubblici. La tassazione differenziata può aiutare anche a modificare questo condizionamento culturale.
Quindi questa proposta, oltre ai benefici fiscali può anche avere effetti culturali più profondi?
Sì, nel lungo periodo il condizionamento culturale soccomberà di fronte ai mutati incentivi che indurranno le coppie a scegliere liberamente chi starà a casa, in modo equilibrato tra i sessi. Quando l’attitudine culturale sarà cambiata le aliquote potranno tornare a essere uguali per donne e uomini. In realtà, per ottenere questo risultato non è necessario adottare la nostra proposta nella sua forma più “hard”. Esiste, ad esempio, questa versione “soft” molto meno invasiva e pur sempre rivoluzionaria.
Può fare un esempio pratico?
Consideriamo una famiglia che debba assistere figli piccoli o genitori anziani. Oggi sarà tipicamente la donna (madre, figlia o sorella) a rinunciare in tutto o in parte al lavoro dato che il reddito dell’uomo (padre, figlio o fratello) è maggiore. Questa situazione cambierebbe, però, se le donne potessero accedere a una significativa detrazione di imposta presentando una certificazione del fatto che l’uomo ha preso in loro vece il congedo parentale per assistere i familiari. Con questa soluzione (una forma di job sharing intra-familiare), lo “scambio tra i sessi” generato dall’incentivo fiscale avverrebbe interamente all’interno di ciascuna famiglia. Al tempo stesso, comincerebbe a diffondersi l’idea, anche tra le imprese, che i compiti familiari possono essere equamente distribuiti tra donne e uomini.
Perché detassare il reddito di lavoro femminile risulterebbe più efficace rispetto alla detrazione fiscale per le imprese?
La ricerca economica ha dimostrato che se si vuole aumentare l’occupazione di una categoria di persone è più efficace, a parità di costo per il bilancio, dare alle persone stesse l’incentivo a trovarsi il lavoro, piuttosto che alle aziende. E questo perché le prime hanno motivi più forti delle seconde per reagire all’incentivo. È singolare che in Italia l’attenzione sia sempre sulla detassazione fiscale delle aziende e mai su quella delle persone. Ed è anche singolare che se si propone una detassazione per le donne gli uomini insorgono, mentre una detassazione per le imprese che assumono donne passa senza un battito di ciglia.
La Scelta Civica di Mario Monti propone una soluzione simile di detassazione selettiva del reddito femminile per portare il tasso di occupazione delle donne dal 46% al 60%. Sono numeri da campagna elettorale o è un risultato davvero alla portata? Se sì, in quanto tempo?
Se a Scelta Civica verrà concesso di governare e in particolare di realizzare la detassazione selettiva del lavoro femminile, dopo una adeguata sperimentazione che consenta di calibrare i parametri della proposta (e solo una sperimentazione può dirci quali sono i parametri ottimali), credo che l’obiettivo di Lisbona (60% di occupazione femminile) sia tutt’altro che irraggiungibile. Del resto il Paese sta andando già da solo in quella direzione, almeno per quel che riguarda le nuove generazioni: la detassazione selettiva serve solo ad accelerare il processo. Ma può fare anche di più, perché può servire a favorire le carriere delle donne. Il problema dell’occupazione femminile non è solo un problema di numero di donne occupate, ma anche di qualità e di carriera. L’incentivo fiscale consentirebbe alle donne di competere ad armi pari con gli uomini nelle promozioni.
Repubblica rimprovera a Monti, e di conseguenza anche alla sua proposta, di non investire socialmente e di non rispondere al lavoro sommerso, suggerendo non di detassare il lavoro femminile ma di facilitare la detrazione dei costi dei servizi di cura. Lei cosa risponde?
Purtroppo l’agenda Monti propone anche misure relative ai servizi di cura “per le lavoratrici madri” che non condivido. Il problema non è di dare alle “sole” donne lo strumento per conciliare la famiglia col lavoro, perché questo vuol dire avere dato per scontato che siano le donne a doversi occupare dei problemi della casa. È difficile credere che il problema sia davvero la carenza di servizi (pubblici) di cura. In paesi come Stati Uniti e Gran Bretagna e altri ancora, questi servizi mancano più che da noi, eppure i tassi di occupazione femminile sono maggiori dei nostri. Lo sono perché i compiti di cura sono distribuiti in modo più equilibrato tra i membri delle coppie e le famiglie hanno maggiori risorse economiche per poter comprare i servizi di cura sul mercato. La tassazione differenziata per genere aumenta le risorse a disposizione delle famiglie (perché mediamente sono tassate meno) e quindi consente di chiedere maggiori servizi al mercato, cosa che indirettamente accresce anche la domanda di lavoro femminile.
Perché non possono essere i servizi di cura a risolvere il problema?
Nei paesi scandinavi dove lo Stato offre servizi di cura in abbondanza, i tassi di occupazione femminile sono elevati, ma si osserva anche una forte segregazione occupazionale per genere. Il motivo è che in un mondo in cui sono le donne a doversi occupare prevalentemente dei figli, gli asili nido consentono loro di lavorare, ma solo in impieghi compatibili con l’accompagnare e riprendere i figli a ore precise e stare con loro quando sono malati. Chiunque abbia figli sa che gli asili nido risolvono solo parzialmente le difficoltà di conciliazione dell’attività di genitori con il lavoro. In ogni caso pensare ai servizi pubblici di cura come una soluzione per l’occupazione femminile significa dare per scontato che debbano essere le donne, e non gli uomini, a curarsi dei figli, degli anziani e della casa. Vuol dire usare l’aspirina per curare il sintomo, invece di andare a toccare l’origine del problema, che è lo squilibrio dei compiti familiari tra donne e uomini in famiglia. Proprio su questo squilibrio agisce, nel lungo periodo, la tassazione differenziata per genere.
(Giuseppe Sabella)