Come definire questo tempo di campagna elettorale? Lo definirei come un tempo imbastito di illusioni e di paure. Illusioni che giungono sino a chi “la spara più grossa” e paure di chi (magari con una punta di esasperazione) si riporta al “baratro” in cui il Paese si era venuto a trovare nell’autunno del 2011. Un periodo ove prevale la demagogia della promessa, ovvero di promesse che (almeno spero) anche chi le avanza ha coscienza di non poter mantenere, ma che con esse intende “ubriacare” l’elettorato “sparando” numeri di politica economica e fiscale che stanno in piedi solo nel processo demagogico da cui sortiscono. Paure che sistematicamente hanno il compito di creare un clima da ultima spiaggia per cui “solo io vi salvo, altrimenti il baratro”.
Che il tempo che siamo chiamati a vivere è pieno di difficoltà e di incertezze è sotto gli occhi e l’esperienza di tutti, ma questo, se da un lato non può essere velato dalla demagogia allegra di certe promesse, per altro verso non può essere superato con un continuo richiamo che ha solo (anche se importanti e purtroppo pressanti) risvolti economico-finanziari, ma che, invece, necessiterebbe, per non essere solo un simulacro di cambiamento, di contenere anche fattive risposte ai bisogni e alle necessità che imbastiscono la quotidianità. Bisogni e necessità che, in gran parte, originano dall’avere accettato, negli ultimi vent’anni, un’economia contraria al libero mercato e schiava del tornaconto finanziario; un’economia per la quale esiste solo la finanza e dove l’uomo e il lavoro (imprenditoriale, intellettuale e manuale) sono sempre stati trattati come scomodi accessori.
Non ci ha tradito il libero mercato, ci ha tradito un pseudo mercato senza regole che è riuscito anche soggiogare gli Stati e le loro politiche sociali ponendo al primo posto il profitto speculativo. Quel profitto che, nella sostanza, non remunera capitali investiti per creare lavoro e sviluppo, ma capitali (spesso anche virtuali) scommessi in una sorta di economia smaterializzata per meri fini speculativi. Un profitto che spetta e resta nelle mani del vincitore di scommesse e giochi che sono stati fatti passare come nuovi strumenti di un’economia avanzata.
Questa tipologia di economia finanziaria si è dimostrata essere il livello massimo del tornaconto capitalistico che ha arricchito pochi a discapito di molti. Siamo di fronte a un’economia non etica ove l’equità è ontologicamente disconosciuta perché essa vive solo di gioco e di scommesse e dove l’altro non è colui che con me partecipa al mercato, ma è il mio avversario che, a ogni costo, debbo sottomettere e vincere. Un’economia come questa è contro l’uomo ed è per questo che tutti i Papi, nelle loro encicliche sociali e nel loro Magistero, ne evidenziano i strutturali limiti etici e l’impossibilità di essere solutiva per le necessità umane.
Se non rammentiamo che è stata proprio questa economia a introdurci in questa vertiginosa crisi, e se ancora le diamo credito, allora facciamo una cattiva politica, che genererà una facile antipolitica. Se non si approntano politiche di fattivo cambiamento ove l’uomo e il lavoro ne sono i punti centrali, se non cominciamo a sottolineare che esiste un altrove rispetto alla miopia di certe scelte di politica economica e che questo altrove è il destarsi di un’economia ove tutto è al servizio dell’uomo e dove la solidarietà e la sussidiarietà sono i pilastri del bene comune, se non facciano questo, allora la politica (qualsiasi politica) sarà conservatrice e le sue reali motivazioni sono da ricondursi alla vecchia paura di conservare miopemente l’acquisito a discapito dell’equità e della giustizia sociale.
Si vincono le paure e si smascherano le illusioni facendo un lavoro su se stessi, cominciando a impossessarsi del potere di proporre solidalmente e sussidiariamente modelli alternativi, che insediandosi in un mercato diventino solidi testimoni di quell’altrove economico in cui ciascuno di noi potrà liberamente esprimersi nel rispetto delle comuni regole che forgeranno il mercato stesso. Per poter effettuare scelte adeguate si dovrà, in ciascun momento storico, avere presente tutti i fattori in gioco e attraverso questa conoscenza individuare le necessità sociali del momento.
In questo momento storico l’urgenza principale è il lavoro (rammento che per il Magistero della Chiesa il lavoro è un diritto fondamentale ed è un bene per l’uomo): ciascun cristiano non potrà sottrarsi di fronte a questa necessità primaria. Il sottrarsi significherebbe ridurre (come spesso fa il peggiore liberismo) il lavoro da “diritto e bene per l’uomo” a merce, ovvero a considerarlo come uno fra i tanti fattori produttivi necessari, quando lo sono, per le attività produttive e/o di servizio. Così operando si snatura il lavoro e noi cattolici non possiamo permettere che questo accada perché “il lavoro è un bene di tutti, che deve essere disponibile per tutti coloro che ne sono capaci. La ‘piena occupazione’ è, pertanto, un obiettivo doveroso per ogni ordinamento economico orientato alla giustizia e al bene comune” (Compendio della dottrina sociale, 288).
Tutto questo perché “i diritti dei lavoratori, come tutti gli altri diritti, si basano sulla natura della persona umana e sulla sua trascendente dignità” (idem, 301) e perché “il lavoro è il fondamento su cui si forma la vita familiare, la quale è un diritto naturale ed una vocazione dell’uomo, esso assicura i mezzi di sussistenza e garantisce il processo educativo dei figli” (idem, 294). Per queste articolate motivazioni i cattolici, in questa congiuntura economica, debbono pretendere dalle loro capacità di solidarietà e sussidiarietà, ma anche dalla politica che il diritto al lavoro divenga la principale priorità.