«Quando ce n’è per tutti, qualche spreco grida meno vendetta al cospetto di Dio di quando c’è poco da mangiare. Oggi abbiamo la necessità di recuperare qualunque margine d’inefficienza possibile». Inizia così questa intervista a Stefano Colli-Lanzi circa la situazione economica italiana e il mercato del lavoro. L’economista e imprenditore, nonché amministratore delegato di Gi Group, la prima multinazionale italiana del lavoro e una delle principali realtà a livello mondiale nei servizi dedicati allo sviluppo del mercato del lavoro, parla delle priorità che il nuovo governo dovrà affrontare per far ripartire l’economia e per risolvere i troppi equivoci di una regolazione del lavoro che penalizza soprattutto chi, nel mercato duale, non è garantito.



A fine anno la disoccupazione in Italia ha raggiunto i livelli più alti dall’inizio delle serie storiche dell’Istat nel 2004…

Il tema della disoccupazione è alimentato dalla crisi economica e il tema crisi economica non può essere affrontato guardando solo il mercato del lavoro. La situazione economica generale ci restituisce un Paese sfinito, indebolito dall’aver continuamente buttato via opportunità e risorse. Negli anni ’70 si confidava molto in una società che pensava di crescere perché si creavano opportunità di lavoro. Poi in realtà si è spostato un po’ l’asse, nell’ambito di una crescita economica che tutto il mondo ha vissuto, ma che l’Italia è riuscita a non vivere.



In che senso?

Negli anni in cui tutto il mondo è cresciuto a razzo, noi siamo riusciti a mantenere un livello basso, fondamentalmente incentivando i consumi. Il berlusconismo è stato questo: “Riduciamo le imposte, aumentiamo il debito pubblico piuttosto, ma facciamo in modo che il consumatore consumi”. Purtroppo, però, il consumo, e in particolare il consumo basato sul debito, non crea ricchezza. E’ il lavoro che crea ricchezza, e non il lavoro inteso come il posto di lavoro; è il valore del lavoro che crea ricchezza. Ovvero un lavoro che produce valore.

Cosa vuol dire lavoro che produce valore?



Un lavoro che risponde a dei bisogni. La capacità attraverso il lavoro di rispondere a dei bisogni produce ricchezza. Che poi si vedrà come distribuire. Ma se manca la ricchezza c’è poco da fare. Questo è un Paese che ha vissuto di palliativi, come quando si butta sul fuoco la carta… una bella fiammata, ma poi quando è finita la carta cosa rimane? Niente, il fuoco si spegne. Oggi il problema è che non abbiamo più nemmeno possibilità di aggiungere carta, l’abbiamo finita proprio tutta. Oggi il tema vero è come tornare a produrre valore attraverso il lavoro.

Al momento, oltre ai programmi dei partiti, abbiamo due grandi progetti, quello di Confindustria e quello della Cgil. Cosa dovrebbe fare in modo prioritario il prossimo governo per il lavoro?

Lungi da me pensare che la soluzione sia solo creare posti di lavoro. In primis, bisogna investire quei pochi soldi pubblici che ci sono rimasti per creare o supportare opportunità di lavoro, sia nel pubblico che nel privato, ma su progetti a fortissimo livello di produzione di valore per il presente e per il futuro, concependo questa azione come un investimento e non solamente come un intervento nel breve termine. Si tratta di un’opera di governance fondamentale, perché non basta spendere per creare posti di lavoro. Bisogna creare posti di lavoro che siano costruttivi in termini di valore/prodotto nel senso delle competenze che si vanno a creare per il futuro.

E poi?

In secondo luogo, lavorerei per spostare progressivamente il carico fiscale dal lavoro ad altro, piuttosto ai consumi: bisogna togliere dal lavoro e dall’impresa che assume il carico fiscale. Abbiamo un cuneo fiscale altissimo che è una doppia mazzata perché aumenta il costo del lavoro per le imprese e diminuisce la possibilità di consumo per le famiglie. Probabilmente nella ripartizione dei carichi fiscali, togliere pressione al lavoro potrebbe essere una buona cosa.

E rispetto alla regolazione del mercato del lavoro?

Questo è il terzo punto fondamentale: bisogna fare un intervento deciso sul mercato del lavoro che soprattutto indichi la strada maestra per la flessibilità in entrata: io penso che questa strada debba essere la somministrazione, perché questa garantisce la massima flessibilità per l’azienda e la massima tutela per il lavoratore, sia in termini di rispetto delle regole, sia in termini di supporto alla ricollocazione, alla formazione, alla employability della persona. Questo però significa creare dei binari differenziati: il legislatore deve rendere normativamente più difficile e costoso il tempo determinato e più facile e meno costosa la somministrazione. Si potrebbe poi applicare l’1,4% in più dell’ASpI sul tempo determinato perché col tempo determinato la persona lasciata a casa è in balia del trattamento di disoccupazione; non vai ad applicare l’1.4% in più dell’ASpI sulla somministrazione perché l’Agenzia una volta che la persona smette di lavorare lo ricolloca da un’altra parte mediamente. Quindi, sia normativamente che economicamente si può indicare una strada maestra.

 

Si dice (soprattutto il Sole 24Ore sembra molto deciso su questo) che la riforma Fornero sta favorendo la disoccupazione. C’è del vero o è solo la voce degli imprenditori che devono pagare di più i contratti?

La riforma Fornero aveva l’intenzione di andare nella giusta direzione, ma ha avuto poco coraggio nell’andare fino in fondo. Voleva rendere più flessibile in uscita il contratto a tempo indeterminato? C’è riuscita molto poco… si è fatta una gran discussione, ma alla fine sembra essersi persa una possibilità: il cambiamento c’è stato, ma non è decisivo a tal punto da rendere più attrattivo, più flessibile e meno drammatico il contratto a tempo indeterminato. D’altra parte ha giustamente bloccato gli abusi di forme spurie che venivano utilizzate per generare flessibilità dentro un sistema rigido poco interessante e poco trasparente per gli investitori esteri… ma non ha indicato una strada maestra. La flessibilità in entrata non è un male assoluto, lo è in caso se ne abusi.

 

E per quel che riguarda le politiche attive cosa ha fatto la riforma Fornero?

Buona la scelta di limitare gli ammortizzatori passivi. Ma non si è avuto il coraggio di fare fino in fondo il tavolo che doveva portare a decisioni sulle politiche attive pubbliche, e nemmeno il coraggio di richiedere alle imprese, a fronte di maggiore flessibilità in uscita, un impegno a finanziare progetti di supporto alla ricollocazione professionale. Bisognerebbe rendere obbligatorio l’outplacement per le aziende che licenziano. L’azienda che licenzia deve per legge offrire al suo ex dipendente un supporto a favore della sua ricollocazione.

 

L’apprendistato, con le recenti facilitazioni introdotte, è uno strumento che di fatto il mercato privilegia?

L’apprendistato va davvero incentivato in modo forte. Quando un’azienda fa una campagna promozionale sa attrarre i suoi clienti, non lo fa facendo uno sconto dell’1%, farà uno sconto del 20%… in questo modo attrae i suoi clienti. L’apprendistato è stato reso facilitante rispetto al resto, ma non è stato reso attraente. Le aziende devono trovare effettivamente conveniente scegliere un giovane. Significa spostare interesse verso i giovani rispetto ad altre categorie molto più protette, forse anche ingiustamente, non tanto per l’età, ma per la produttività. Il nostro non è un sistema produttivo, non può essere tutto teso alla conservazione del sistema.

 

Mai come ora urge un welfare progettuale…

Lo Stato deve chiarire quali azioni pubbliche deve fare attraverso le regioni, in che modo, con quanti soldi, con quali iniziative, in quale modo gestire il rapporto pubblico-privato, determinando quale tipo di governance se più nazionale o più regionale: c’è bisogno di una posizione che vada oltre i tentativi fatti dalle singole regioni, non c’è un’azione sistematica convinta. Quello che non possiamo più permettere è il perdurare del mercato duale, di chi è garantito e di chi non lo è per niente. Dobbiamo renderci conto che c’è una forma di flessibilità buona, cosa che manca negli schemi mentali di chi opera e, anche, dell’ultimo Ministro. La flessibilità è cattiva nel momento in cui la persona è abbandonata a sé stessa, non ha un supporto. La somministrazione gestita dalle Agenzie è una forma di flessibilità buona, che può rispondere alla precarizzazione del lavoro e al mercato duale.

 

Le Agenzie possono quindi essere un “incubatore della precarietà” e porsi come soggetti attivi del nuovo welfare?

Sì. Accentrare sulle Agenzie il lavoro non stabile, a cui la somministrazione può rispondere, sarebbe anche molto vantaggioso dal punto di vista del controllo e del monitoraggio della qualità: le agenzie autorizzate sono circa 80 in Italia, monitorare 80 soggetti che collocano e ricollocano (e i loro utenti) è una cosa molto semplice.

 

Quali criticità per compiere questo salto?

In primis bisogna appunto riconoscere che c’è una forma di flessibilità buona. In secondo luogo, c’è un conflitto di interessi che prima o poi bisognerà affrontare.

 

Quale?

I lavoratori somministrati dall’Agenzia sono seguiti dal sindacato dei lavoratori somministrati. Quando vanno a lavorare presso l’azienda dove sono somministrati, i lavoratori dell’azienda sono gestiti dal Sindacato di categoria. Chi fa il contratto aziendale? L’azienda con il sindacato di categoria, il quale tende a difendere gli interessi dei suoi iscritti rispetto agli iscritti dell’altra categoria. Per questo, il sindacato, il cui lavoro è promuovere l’utilizzo di strumenti più sicuri come la somministrazione, tende a propendere per il contratto a tempo determinato.

 

Come uscire da questa empasse?

Si tratta di un problema di governance. Qui ci vuole una legge forte. In assenza di una legge forte, sul piano della contrattazione si rischia di perdere la partita prima ancora di giocarla…

 

(Giuseppe Sabella)