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Nel recente rapporto “Going for Growth 2013” l’Ocse invita con forza l’Italia a proseguire la Riforma del lavoro, potremmo dire a “completarla”. A questo fine fornisce anche due indicazioni: da una parte sarebbe utile rendere più flessibili le assunzioni e i licenziamenti e, in second’ordine, intervenire sull’enorme dualismo del nostro mercato, che  – tutelando eccessivamente il posto di lavoro – di fatto ostacola una distribuzione efficiente della forza lavoro, finendo per impedire il necessario miglioramento della produttività del nostro sistema,  a tutto discapito di lavoratori e imprese.



Temi, questi, che più volte abbiamo indicato come fondamentali per un miglioramento del mercato del lavoro e una ripresa dell’occupazione nel nostro Paese. Tuttavia, soprattutto in questa fase delicata di vigilia delle elezioni, occorre chiedere alle forze del governo che verrà di porre in atto una strategia più completa; in caso contrario nemmeno i suggerimenti dell’Ocse potranno aiutarci a uscire dalla situazione critica in cui ci troviamo. Per creare maggiore occupazione occorrono, infatti, almeno tre fattori: vediamo quali.



In primis, serve una reale crescita dell’economia del nostro Paese, non solo del mercato del lavoro. Occorre dunque dare chiari stimoli alla politica economica: input selettivi, che tengano conto delle singole situazioni e che siano finalizzati a sviluppare nuova e reale occupazione; capaci, cioè, di attivare nel breve iniziative in grado di generare valore per tutti anche nel medio e lungo termine.

Scavare e riempire buche o  – che è più o meno lo stesso – inventarsi nuovi posti pubblici improduttivi, oggi è quanto mai pericoloso: visto che ci troviamo nella condizione di dover buttare della carta sul fuoco per riattivare l’economia anche con stimoli di breve termine, occorre però privilegiare le iniziative che non si esauriscono subito ma che risultano più in grado di contribuire anche a una generazione di valore duratura nel tempo. Si apre a questo proposito un’importante verifica da svolgere con attenzione sulle ricette proposte da più parti: in estrema sintesi, infatti, Confindustria spinge perché vengano concessi incentivi alle imprese, mentre la Cgil chiede che vengano assunti nuovi – non si sa quanto utili – dipendenti pubblici.



Nessuna ricetta può oggi considerarsi di per sé buona: occorre piuttosto valutare a quali condizioni e per quali obiettivi si debbano concedere eventuali risorse e scegliere con attenzione chi si impegna, in modo preciso, a farle fruttare nel tempo per il bene di tutti. In secondo luogo, è fondamentale spostare la tassazione, purtroppo necessaria per tenere in piedi  il funzionamento dello Stato, dal lavoro ad altre fonti. Le imposte sul lavoro vanno alleggerite, sia per le persone che per l’impresa. Occorre assumersi la responsabilità di fare delle scelte precise; decidere, cioè, come usare le poche risorse disponibili nel modo migliore: ad esempio, riducendo il cuneo fiscale, eliminando il più possibile il costo del lavoro dall’imponibile Irap, facendo tutto il possibile per migliorare la retribuzione netta delle persone.

Infine, come sottolinea proprio il rapporto “Going for Growth 2013”, occorre far funzionare meglio il nostro mercato del lavoro. Come? Prendendo sul serio le istanze sollevate dall’Ocse e da noi più volte indicate.

Tra le priorità figurano infatti innanzitutto assunzioni e licenziamenti più flessibili e certi, sia normativamente che dal punto di vista dei costi da sostenere; chiara responsabilità delle aziende nel trovare nuove collocazioni ai lavoratori attraverso politiche attive di outplacement; sviluppo di pratiche di buona flessibilità in entrata, la cosiddetta flexicurity. Da quanto detto appare con chiarezza, ancora una volta, come la Riforma Fornero, seppur giusta a livello di direzione intrapresa, sia certamente da completare; nell’ambito dell’articolato quadro sopra esposto, riteniamo che tre siano i provvedimenti principali da attivare e percorrere sino in fondo:

1) Riportare al centro delle politiche del lavoro il contratto a tempo indeterminato, rendendolo più flessibile in uscita e limitando solo a casi autentici il ricorso a forme di lavoro autonomo (Partite IVA e Co.Co.Pro. ecc.), demandando invece alle Agenzie per il Lavoro la buona flessibilità, sia puntando decisamente su di esse in termini di incentivi economici e normativi che limitando l’uso del contratto a tempo determinato a casistiche specifiche. Sono le Agenzie che, dopo 15 anni di operatività, possono e devono costituire la giusta leva per gestire la flessibilità richiesta dalle aziende e la sicurezza richiesta dai lavoratori, in una prospettiva non più di posto fisso a vita, ma di costante employability.

2) Attraverso una maggiore flessibilità in uscita si potrà disporre di una leva per sviluppare il mercato del lavoro, a patto che tutti si impegnino a ricollocare al meglio i lavoratori, garantendo in questo modo quella sicurezza che non può essere disattesa nemmeno in condizioni di maggiore elasticità.  In particolare, sostenere e rendere obbligatorio il regolare ricorso all’outplacement potrebbe portare a un risparmio per lo Stato di quasi un miliardo di Euro l’anno grazie all’abbassamento dei tempi di reinserimento lavorativo.

La Riforma Fornero prevedeva inoltre la necessità di stabilire regole nazionali per il funzionamento delle politiche attive: occorre metterci mano con urgenza. Sono sempre più, infatti, le persone che necessitano di aiuto da parte del pubblico, non solo e non tanto in termini di sussidi ma soprattutto per trovare un nuovo posto di lavoro; a questo scopo gli esperimenti svolti in varie Regioni testimoniano che la collaborazione tra pubblico e privato è la strada giusta da percorrere.

3) Per ridurre il grave dualismo del nostro mercato, segnalato ancora una volta dall’OCSE, occorre eliminare barriere in entrata ed incentivare gli strumenti migliori per l’inserimento dei lavoratori. E’ dunque fondamentale adottare politiche per incentivare l’uso  dell’apprendistato, portando a zero i contributi per tutta la sua durata, compreso l’anno successivo (anziché al 10% come ora) e rimodulando la retribuzione minima, conferendo il 30% il primo anno, il 60% il secondo e il 90% il terzo fino al 100% nel quarto anno con la stabilizzazione a tempo indeterminato.

Per quanto riguarda l’apprendistato di primo livello  (diritto-dovere) proponiamo il modello tedesco,  dove l’apprendista guadagna solo il 30% del minimo contrattuale (contro l’80% garantito in Italia), ma dove c’è un vero investimento formativo di lungo termine da parte dell’azienda e dove, pertanto, questo strumento contribuisce decisamente al basso tasso di disoccupazione giovanile (sotto il 10%) contro il 36,6% in Italia nella fascia 15-24 anni. 

Abbiamo davvero bisogno di individuare chiare strade maestre e percorrerle insieme, rapidamente. E ciò appare tanto più possibile quanto più lo scopo diventa, finalmente, quello di costruire qualcosa di realmente utile per tutti, sostenibile e duraturo per il nostro futuro e, ancor più importante, per quello dei nostri giovani. 

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