7.200 euro. Per alcuni, in Italia, specie per molti giovani, è una cifra corrispondente all’intero stipendio di 12 mesi. In Germania, si tratta di un semplice bonus di fine anno erogato da Volkswagen ai propri dipendenti. A tutti i propri dipendenti. Ovvero, circa 100mila persone che hanno potuto prender parte ai benefici prodotti da un utile record di quasi  22 miliardi nel 2012 (per il 2011, il bonus fu di 7.500). E’ indubbio che l’economia tedesca sia, attualmente, più prospera della nostra. Questo, tuttavia, non è l’unica ragione per cui l’azienda automobilistica – così come tante altre – è in grado di gratificare in questo modo i propri dipendenti. Maurizio Del Conte, professore di Diritto del lavoro presso l’università Bocconi di Milano, ci spiega come dovrebbe cambiare il nostro Paese.



Da cosa dipende l’abitudine di Volkswagen?

I 7.200 euro rappresentano solo l’ultimo di una serie di risultati prodotti dal sistema partecipativo che è alla base delle relazioni industriali tedesche. In Germania, infatti, vige il modello della codeterminazione e della cogestione: gli organismi rappresentativi dei lavoratori siedono nei consigli di sorveglianza delle imprese; chi ne fa parte è eletto dai lavoratori attraverso suffragio universale. Si tratta di un sistema che dà luogo a forme di corresponsabilità alle scelte dell’impresa. In sostanza, si sta insieme nella buona e nella cattiva sorte, mentre i sacrifici vengono condivisi.



In Italia sarebbe possibile?

In Italia nessun sindacato si renderebbe partecipe della decisione di chiedere, magari in un momento di particolare sofferenza per l’azienda, un sacrificio ai lavoratori. Le associazioni hanno sempre preferito continuare a mostrare ai datori di lavoro il loro volto più duro. Peccato che questo abbia significato rimanere a mani vuote quando si è trattato di ripartirsi gli utili.

E’ auspicabile che anche il nostro Paese applichi il sistema tedesco?

E’ necessario. Siamo in una fase ormai matura, e la storia conflittuale delle nostre relazioni industriali dovrebbe appartenere al passato. Si dovrebbe finalmente passare dalla fase antagonista a quella collaborativa. Il che non significherebbe, per l’azienda, rinunciare alle proprie specificità, né per il sindacato alla tutela dei diritti dei lavoratori. Il caso della Germania, come quello di tanti paesi in cui il dialogo con i sindacati è improntato a un’ottica partecipativa, dimostra come un tale modello consenta performance elevate: l’azienda, grazie al sindacato, risparmia e fa più profitto e può, quindi, permettersi di erogare un premio consistente ai lavoratori. Un premio che non è una concessione frutto di un atto di generosità, ma il risultato del suddetto dialogo. Occorrerebbe che i sindacati interpretassero in maniera diversa i diritti dei lavoratori; e che le aziende iniziassero a considerare l’interlocuzione con il sindacato non più come un costo, ma come un’opportunità.



Perché, in Italia, ancora non si ragiona in questi termini?

Perché da noi, la storia del movimento sindacale è legata alla frammentazione politica dell’arco parlamentare. All’interno delle diverse componenti associative, si è riprodotta la divisione politico-ideologica del Parlamento. Il che, non ha consentito al sindacato di emanciparsi dalla logica secondo cui deve concepirsi come cinghia di trasmissione tra il mondo politico e quello industriale, e non come un semplice strumento di miglioramento delle condizioni di lavoro.

Evidentemente, i sindacati temono di perdere parte del proprio potere…

Nel lungo periodo, se passassero al modello tedesco, ci guadagnerebbero. Otterrebbero, anzitutto, reale legittimazione, di cui oggi sono privi. I lavoratori, del resto, sono sempre più stufi di essere rappresentati da soggetti la cui destinazione finale sia entrare in Parlamento o in qualche organo di partito. Vorrebbero sindacalisti che si occupano dei propri problemi.

A che condizioni un cambiamento del genere è possibile?

C’è un problema di classe dirigente sindacale, ancora legata alle vecchie logiche di stampella al potere politico. Dubito che il cambiamento possa avvenire attraverso la legge che, normalmente, è la conseguenza di una mutazione culturale e sociale del Paese. In sostanza, non si può di cambiare la testa della persone per via legislativa. Oggi il sindacato versa in una crisi di cui deve comprendere le ragioni. Le associazioni maggiormente legate ad appartenenze politiche devono prendere coscienza di come tale legame costituisca un peso che rischia sempre più di affossarle.

 

(Paolo Nessi)

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