L’Istat mensilmente ci riporta sul tema giovani di cui la cieca politica, oltre a non aver fatto nulla, nemmeno parla. Il livello di disoccupazione è sempre molto alto (36,6%), ma ancor più preoccupanti, come spesso su queste pagine abbiamo ricordato, sono gli indici della rassegnazione: il 21,5% dei giovani tra i 15 e i 29 anni in Italia non lavora e non studia, non fa apprendistato, né alcun corso di formazione. Sono più di 2 milioni. Numeri spaventosi che, oltre a un problema culturale, mettono a nudo anche un problema strutturale, a cui il nostro welfare non sa dare risposte. È ciò che in questa intervista a ilsussidiario.net approfondisce Alessandro Rosina, professore di Demografia all’Università Cattolica di Milano e Presidente di Italens, anche in occasione della pubblicazione del suo libro “L’Italia che non cresce – Gli alibi di un Paese immobile” (Laterza), nelle librerie dal 7 febbraio.



Il problema demografico e della natalità è sempre più considerato nel dibattito in seno all’economia. Ci si chiede come può essa crescere col calo della natalità che si registra. Lei cosa ne pensa?

Ci sono al riguardo teorie contrastanti, ma c’è sicuramente un fatto: il numero di giovani si sta riducendo. E questa riduzione è tale in termini quantitativi e di impatto da non avere precedenti nella storia, se non legati alle guerre, alla peste, alle carestie. Non è mai successo che una società perdesse in poco tempo così tanti giovani come è successo all’Europa e in particolare all’Italia, come conseguenza della denatalità.



Ovvero?

È dalla fine degli anni ‘70 che siamo scesi sotto la media di 2 figli per donna ed esser scesi sotto questa media significa sistematicamente e da 40 anni avere meno figli che genitori, quindi nuove generazioni meno consistenti rispetto a quelle precedenti. Ma questa fecondità non è solo scesa sotto i 2 figli, è arrivata a 1,19 a metà degli anni ‘90 e continua a essere persistentemente molto bassa. Quindi il problema non è solo la bassa fecondità, ma anche la persistenza della bassa fecondità. La conseguenza di questo è di avere meno giovani nella popolazione, tra il 1991 e il 2021, tenendo conto delle previsioni Istat, noi perderemo 5 milioni di persone tra i 15 e i 34 anni.



Tuttavia il dibattito in Italia è schiacciato sul tema dell’invecchiamento…

Questo è il problema… noi sappiamo che l’Italia è una Paese che invecchia e che ha tanti anziani, che è anche legato a un aspetto positivo, la longevità. Non leggiamo però l’altra faccia della medaglia, cioè dell’avere meno giovani; perdiamo così un aspetto rilevante della vicenda e delle politiche che servono per rispondere a tale fenomeno, che rappresenta una sfida inedita. Tant’è che non abbiamo nemmeno un nome per chiamare questo processo, perché se in una popolazione aumenta il numero degli anziani parliamo di invecchiamento; se aumenta il numero dei giovani, parliamo di ringiovanimento.

E se diminuisce il numero dei giovani?

Non abbiamo un termine, sul vocabolario non esiste! Non c’è un temine adatto. Io nel dibattito, come provocazione ho lanciato il nome “degiovanimento”, giusto per dargli un nome, identificare il tema e capirne le implicazioni. Quindi, oltre alla denatalità, abbiamo un problema di “degiovanimento”, cioè di una società che ha sempre meno giovani. Continuiamo a chiamare questo fenomeno invecchiamento, spostando l’attenzione verso gli anziani. Dobbiamo invece concentrarci sui giovani, capire cosa vuol dire avere meno giovani. Noi non lo sappiamo, non è mai successo… possiamo avere delle teorie, ma stiamo sperimentando sulla nostra pelle quali possono essere le potenziali implicazioni.

 

E invece cosa sta succedendo?

Quello che sta succedendo, effettivamente, è contro intuitivo: l’economia dice che se un bene diventa più raro sul mercato, proprio perché è un bene più raro e meno disponibile, diventa anche più prezioso e più ricercato. I giovani sono un bene sempre meno disponibile sul mercato, nella società, sono sempre di meno. Eppure non sta succedendo come per gli altri beni, cioè i giovani non sono più ricercati e trattati come preziosi. Sono di meno, e anziché valorizzati sono più marginalizzati, si investe di meno, li si valorizza di meno, e così via.

 

Il problema non è quindi solamente quantitativo.

No, è anche qualitativo. Abbiamo meno giovani e anziché rispondere a questo fenomeno inedito potenziandone la qualità, stiamo procedendo in senso contrario. La stessa parola “giovane” è legata al verbo giovare, essere di utilità, di giovamento per la società. Non solo abbiamo giovani non attivi e ai margini, ma abbiamo anche una società che non cresce. I giovani anziché essere attivi nella società e nel mercato del lavoro dipendono economicamente, e non solo, dai genitori, fino a oltre i 30 anni. E quindi non riescono a essere pienamente un fattore per la crescita e per il cambiamento.

 

E in Europa com’è la situazione al riguardo?

La Francia ha molti più giovani, del resto ha sempre attuato politiche famigliari più consistenti. Mentre la Germania ha avuto una riduzione della natalità, e quindi ha meno giovani come l’Italia, ma ha investito sulla loro qualità. Quindi, rispetto a tutti gli indicatori sui livelli di occupazione, sulla ricerca e sviluppo, sull’età media dei manager, la Germania è abissalmente più avanti, perché sta compensando in senso qualitativo la riduzione quantitativa dei giovani. Da noi tutto questo non avviene, oltretutto molti giovani, quelli che non si rassegnano, se ne vanno all’estero. Questo crea un circolo vizioso: ciò significa non utilizzare, ma addirittura esportare produttori di innovazione, perche i giovani sono portatori di innovazione. Avere tanti giovani, significa anche avere tanti consumatori, far crescere la domanda interna.

 

In Italia succede anche che si prolunga continuamente l’età pensionabile. Questo, in mancanza di adeguate politiche, può frenare ulteriormente l’ingresso nel mercato del lavoro per i giovani. Come fare a rendere per loro il mercato più inclusivo?

L’Italia non ha mai investito in un welfare attivo, ha sempre considerato il welfare come spesa, come costo; e anche il prolungamento dell’età pensionabile è legato a questa logica: non ha potenziato i lavoratori adulti e maturi per dar loro più opportunità, ma semplicemente per ridurre il costo delle pensioni a carico dello Stato. Non c’è mai stata una politica di sviluppo, di crescita, attivando le capacità delle persone. Cioè un modello di sviluppo che metta al centro la persona, le sue capacità e la sua valorizzazione. Quindi oggi ci troviamo con donne non valorizzate, con tassi di occupazione molto bassi, con giovani sottoutilizzati, con gli immigrati che sono considerati solo un problema di ordine pubblico, con gli anziani che sono un costo sociale anziché una potenziale ricchezza. Le persone che hanno 60 anni oggi non sono come i coetanei degli anni ‘50. Hanno capacità, potenzialità, esperienza.

 

E invece cos’è stato fatto?

 Abbiamo spostato in avanti l’età pensionabile, niente di più. Ma se non si creano nuove opportunità, per esempio investendo nella formazione continua, è inutile tenerli al lavoro. Così le persone sono obbligate a restare in azienda e le aziende sono obbligate a tenersele. Anziché essere un’opportunità diventano un vincolo.

 

E per quanto riguarda i giovani?

Si è scaricato il costo del welfare sulle famiglie, se ne stanno occupando loro. In mancanza di strumenti di welfare attivo, come rilevato dalla recente indagine Toniolo, nel 70% dei casi, finito lo studio, finito il lavoro, il giovane torna a vivere con i genitori, perché non ha opportunità di mantenere la sua autonomia e di sentirsi così responsabilizzato come cittadino attivo. Non lamentiamoci quindi se abbiamo pochi giovani, uno tra i tassi più alti di disoccupazione giovanile e il più alto tasso di Neet. Tutto questo dimostra che non abbiamo capito niente sulle nuove generazioni e su come si cresce.

 

Quali strumenti proporre come politiche di welfare e di crescita dell’occupazione giovanile?

Abbiamo bisogno di un welfare attivo che permetta di rispondere alla fuoriuscita dal mercato attraverso la formazione e il ricollocamento, in modo tale che il giovane non ritorni in famiglia e si adagi su di essa. Anche per questo è importante il sostegno al reddito universale a partire dai 25 anni. A partire da tale età un giovane deve sentirsi non più un figlio, ma un cittadino pienamente responsabilizzato e con strumenti adeguati per conquistare e ottenere una propria autonomia. L’assistenzialismo prolungato e incondizionato dei genitori rischia invece di essere il peggior welfare possibile, perché incentiva la dipendenza passiva.

 

E poi?

In secondo luogo, abbiamo bisogno di una maggiore combinazione tra scuola-lavoro: questo renderebbe più efficaci i percorsi formativi e crescerebbe la confidenza col lavoro da parte dei ragazzi. Necessitiamo inoltre di più innovazione, ricerca e sviluppo: sono proprio questi settori che fanno crescere l’economia e dove il capitale umano dei giovani può essere meglio speso. Questo crea chiaramente un circuito virtuoso: crea occupazione per i giovani e cresce la competitività del Paese. I paesi europei che più investono nell’innovazione sono quelli più virtuosi nell’occupazione giovanile e quelli che attirano più giovani dagli altri paesi.

 

Secondo lei, il sistema di welfare italiano è in grado di compiere questo salto in avanti?

È in atto un ripensamento del welfare, che sta attivando tutte le risorse che ha sul territorio. Al momento però abbiamo il pubblico che si sta ritraendo, mentre dovrebbe essere il regista di questo welfare-mix e coordinare/monitorare l’offerta complessiva. La combinazione di pubblico e privato è fondamentale, ma purtroppo avviene solo occasionalmente, al di là del dinamismo delle realtà locali. Manca una visione unitaria che permetta di identificare priorità e obiettivi. Solo questo permetterà di non fare interventi marginali ma di affrontare il problema in modo sistematico e strutturato.

 

(Giuseppe Sabella)