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I dati occupazionali indicano, tra le varie emergenze, la necessità di una maggiore flessibilità “buona” in entrata. Richiedono, cioè, l’efficace sviluppo di una strada maestra capace di permettere alle aziende di fare investimenti, assumere persone, provare a crescere, senza avere timori eccessivi riguardo la mancanza di flessibilità del lavoro, ed evitando nel contempo che quest’ultima si traduca nella precarizzazione professionale di molte persone. Qual è invece la situazione in cui versiamo oggi, dopo la riforma Fornero? È quella di chi si ritrova a metà del guado, mentre le correnti del fiume aumentano e il livello dell’acqua cresce con decisione.



Siamo infatti in presenza di forti limitazioni alla flessibilità in entrata e ancora privi di strumenti che siano realmente positivi e sui quali puntare con decisione per generare occupazione; mentre il contratto a tempo indeterminato, nonostante le modifiche volute dalla Riforma Fornero, continua a essere troppo rigido. E, quel che è peggio, non si ha ancora chiarezza su chi si prenderà la responsabilità di indicare con forza una soluzione, che necessariamente dovrà essere proposta da coloro che si troveranno a guidare – fra poco meno di un mese – il nostro Paese.



Siamo, infatti, giunti a un bivio: la prima ipotesi è quella di dirigerci sempre più verso un contratto a tempo indeterminato più flessibile e forme di flessibilità più selettive, che impediscano i consueti abusi e lo scadimento nella precarizzazione, ma che, d’altro canto, scommettano decisamente su alcuni strumenti in grado di assicurare una flessibilità buona e sicura, come quella garantita dal contratto di somministrazione. L’alternativa è quella di fare marcia indietro, salvaguardando il tradizionale combinato del contratto a tempo indeterminato con lo Statuto dei Lavoratori e tornando a quelle forme di cattiva flessibilità che consentono alle aziende di fare ciò che vogliono, al di qua e al di là della cosiddetta border line.



Ma, nel contesto odierno, cosa serve davvero? E cosa implica, concretamente, una flessibilità buona e sicura? Quando discutiamo di questi argomenti non ci troviamo, infatti, solo dinanzi a un fatto tecnico, ma, piuttosto, mettiamo sul tavolo una vera e propria concezione delle persone, delle aziende e del compito di ciascuno. Alla vita lavorativa di ognuno di noi e delle nostre imprese, cosa serve dunque maggiormente?

Se esaminiamo i contratti in uso, bisogna osservare che ogni strumento contrattuale va certamente utilizzato per il proprio specifico scopo, come avviene, ad esempio, per la gestione di autentici progetti, periodi di prova abbastanza lunghi, o picchi legati alla stagionalità. In tal senso qualcosa è stato fatto: le misure restrittive nei confronti degli usi inadeguati di contratti come le Partite Iva e i contratti a progetto o la limitazione della durata dei contratti a tempo determinato direttamente stipulati tra imprese e lavoratori vanno certamente in questa direzione, tuttavia non sono sufficienti per rispondere alle attuali esigenze.

Se consideriamo, ad esempio, la sicurezza offerta ai lavoratori da quello che a molti sembra essere il contratto più tutelante – quello a tempo determinato direttamente stipulato tra impresa e lavoratore – e la compariamo con quella resa possibile dalle agenzie per il lavoro con il contratto di somministrazione, la differenza a favore di quest’ultimo è evidente: il lavoratore che accede direttamente a un’impresa si ritrova sostanzialmente solo, le sue competenze ed esperienze vengono utilizzate senza una particolare cura del loro sviluppo e, fattore ancor più decisivo, la persona non viene supportata nei periodi di inoperatività. Il contratto di somministrazione, viceversa, garantisce la “buona” flessibilità, assicurando un’adeguata flessibilità alle aziende e tutta la sicurezza del caso ai lavoratori. Le Agenzie, infatti, generano maggior valore per tutti, anche grazie alla loro capillare presenza sul territorio.

Da questo punto di vista la Riforma ha – anche se forse un po’ troppo implicitamente – indicato una direzione positiva: quella di una sottolineatura del ruolo importante delle Agenzie, finendo per ribaltare, di fatto, il regime di convenienza a favore dei contratti di somministrazione intesi come miglior forma di flexicurity. Tutto ciò non basta tuttavia ancora a indicare questa soluzione come la vera strada maestra: sottrarre la somministrazione agli inasprimenti contributivi – che giustamente riguardano altre forme di flessibilità – di cui l’addizionale dell’1,4% per l’Aspi è un esempio, o liberalizzarne decisamente le causali di utilizzo, potrebbero invece rivelarsi iniziative molto importanti.

Attualmente, come si diceva, ci troviamo di nuovo dinanzi a un bivio del quale, responsabilmente, non possiamo che scegliere e percorrere fino in fondo la direzione che prevede un contratto a tempo indeterminato più flessibile e l’utilizzo della somministrazione per una flessibilità realmente buona e sicura. Non puntare con decisione su questa strada e non supportare il valore positivo delle Agenzie, retrocedendo, al contrario, dalla via intrapresa, potrebbe risultare negativo per uno sviluppo qualitativo del mercato del lavoro: si finirebbe così per indicare nuovamente come unica strada per lo sviluppo quella, deleteria, dei facili espedienti, così poco utili a costruire un futuro di bene nel medio-lungo termine.

Questa volta non basta un salvagente provvisorio, ma occorrono una barca più solida ed una rotta chiara, con le quali sia possibile affrontare la traversata – che ancora ci attende – verso sponde più sicure.

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