Il Pd è all’angolo, spinto dall’ambiguità che lo ha guidato, che lo ha condotto a queste elezioni e che gli ha fatto perdere un vero riformatore e uomo simbolo come Pietro Ichino, ora passato alla Lista Monti. Il partito capitanato da Pier Luigi Bersani ha avuto con le primarie l’occasione di rinnovarsi: Matteo Renzi era sostenuto, tra gli altri, proprio dall’ex Senatore democratico, ma alla fine ha prevalso, con la conferma di Bersani, la linea della conservazione, la linea Fassina. Tant’è che, a quel punto, Ichino nel suo addio al partito ha vuotato il sacco: “Bersani ha scelto Fassina, non ha avuto il coraggio di uscire dall’ambiguità: non si può essere europeisti in Europa e antieuropeisti in Italia”.



La rivalità tra Ichino e Fassina, più che personale, è fondata su vedute differenti e non è recente. Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, è espressione dell’anima del partito più statalista e più vicina alla Cgil; Ichino è da sempre molto vicino alle posizioni più moderne del riformismo. In particolare su questo terreno si esprime oggi la tensione interna al partito e tra le sue varie correnti. Il Pd è costretto a un’intesa in Parlamento, da solo non ha i numeri per governare. Ci provano con il Movimento 5 Stelle, ma riformisti e volponi (D’Alema su tutti) sono per le larghe intese. Se si rivolgono altrove (non rimane altra scelta se non Pdl e Monti), l’ala più oltranzista e di sinistra (Cgil-Vendola) insorgerà. Non a caso il Professor Monti da mesi, sperando in una presa di posizione forte di Bersani, punta proprio il dito contro Cgil e Vendola, invitando il Pd a liberarsi del pesante fardello.



Il problema è naturalmente e soprattutto la vision economica e del lavoro, si tratta di tensioni che durano da anni. Possiamo sintetizzarle in alcuni punti, che naturalmente non sono gli unici, ma sono cruciali.

La flessibilità: per l’ala più conservatrice non esiste flessibilità buona. Non c’è discussione sulla flessibilità, bisogna tornare al contratto a tempo indeterminato come contratto unico. Per Ichino la flessibilità, prima ancora di essere espressione del legislatore che regola il mercato, è espressione del mercato stesso; c’è eccome una flessibilità buona, a cui deve fare da complemento un buon sistema di riqualificazione e di ricollocamento per i lavoratori. È la flexicurity. Ichino sa bene quanto siano importanti gli operatori privati del collocamento e quanta strada, in quest’ottica, ci sia da fare. Lo stesso Ichino due anni fa aveva promosso un’ipotesi di “contratto unico”, come contratto di lavoro di riferimento. Questo per porre un freno all’utilizzo improprio delle forme flessibili soprattutto in entrata, andando a rivedere qualche rigidità sulle tutele e favorendo più flessibilità in uscita. Più flessibilità in uscita significa inevitabilmente rivedere l’articolo 18 (con la riforma Fornero un passo è stato fatto), cosa che comunque ha trovato la forte resistenza della Cgil e di Vendola.



Articolo 18: nell’ultima legislatura Ichino è stato promotore di un ddl che ha raccolto 56 firme, la metà del gruppo al Senato del Pd. L’ipotesi era quella di abolire il reintegro e di favorire non solo l’indennizzo ma anche il sostegno alla riqualificazione e al ricollocamento del lavoratore licenziato. Tutto questo non per favorire licenziamenti di massa, ma semmai per salvare le imprese – non abbandonando i lavoratori – facilitando processi di ristrutturazione aziendale in un momento di recessione economica fortissima e di contrazione del mercato. Su questo punto è inutile dire quale fosse la posizione della Cgil.

Il caso Fiat: quella di Ichino è stata una tra le poche voci fuori dal coro, che ha più volte dato risalto all’innovazione portata sia dai contratti aziendali siglati dall’azienda con parte del Sindacato, sia dal rinnovamento per esempio della fabbrica di Pomigliano, ritenuta in Europa tra le migliori dell’industria automobilistica. Fassina non ha mancato di criticare Marchionne e la Fiat, l’ultima volta in occasione della richiesta di cassa integrazione per la riorganizzazione di Melfi, sulla quale è stato smentito su queste pagine anche dal nuovo collega Giorgio Santini.

Il raccordo pubblico-privato: è chiaro che una delle priorità del nuovo governo, quando lo avremo, sarà di affrontare il ruolo dell’operatore privato e di capire se e come renderlo più protagonista, soprattutto per quel che riguarda il lavoro somministrato e le politiche attive. Questo significa ridimensionare il ruolo del pubblico, che comunque non riesce a risponde alle emergenze del nostro tempo. Ma quello che vorrebbe la Cgil, il suo piano per il lavoro parla chiaro, è creare nuovi posti pubblici; quindi nessun ridimensionamento del pubblico.

Sono sufficienti questi punti per comprendere non solo le tensioni interne al partito, ma anche la linea piuttosto statalista del suo responsabile economico. Intervistato a metà gennaio dal Financial Times e intervenuto sul tema delle esportazioni, Fassina ha detto che di per sé queste non possono aiutare abbastanza l’economia italiana, quindi bisogna rilanciare la domanda interna; a questo scopo, il centrosinistra “cercherà un accordo con i sindacati e le imprese: congelare gli adeguamenti di stipendio in cambio di investimenti. Negli ultimi dieci anni gli investimenti nel settore privato sono stati molto scarsi”.

Sorgono spontanee due domande: ma Fassina sa che abbiamo un cuneo fiscale altissimo che aumenta il costo del lavoro per le imprese, rende difficili le assunzioni e diminuisce la possibilità di consumo per le famiglie? Abbassare il cuneo fiscale non si può? Naturalmente questo significa tagliare i costi della politica e dell’apparato, ecco cosa Fassina e il Pd non vogliono. Bersani continua a chiedere a Grillo cosa vuole fare. Ma Pier Luigi quando deciderà cosa fare da grande?