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Investire nelle persone. Questa la ricetta, totalmente condivisibile, alla base delle iniziative che Commissione europea, Organizzazione internazionale del lavoro e Ocse indicano, dal 2007, come decisive per compiere il passaggio, giudicato come assolutamente necessario, da politiche passive a politiche attive del mercato del lavoro. Del resto, anche nel rapporto “Fse: politiche attive del lavoro e servizi pubblici per l’impiego”, del 2010, la Commissione europea ribadiva che, nei principali paesi dell’Unione, “le politiche attive del mercato del lavoro sono considerate lo strumento più esauriente e pragmatico per combattere la disoccupazione. Nella fase di passaggio da misure di sostegno quali ammortizzatori sociali o fiscali e legislazione del lavoro altamente protezionistica a una nuova strategia” – si legge ancora – “le politiche attive del mercato del lavoro hanno il pregio di trasmettere ai lavoratori un maggior senso di sicurezza […]; non si limitano infatti a combattere la disoccupazione ma tutelano l’occupabilità e sono fondamentali per rendere il mercato del lavoro più inclusivo per tutti”.
Investire nelle persone – dunque – e personalizzare i servizi: così facendo si garantisce l’incontro tra competenze e aspettative dei cittadini, da un lato, e posti di lavoro disponibili, dall’altro. La “strategia del lavoro prima di tutto”, dice l’Ue, deve sostituire le formule di sostegno finanziario passivo e incoraggiare i cittadini a tornare al lavoro. Messaggi molto chiari, questi, che hanno inciso, tra il 2007 e il 2013, su ben 5,5 milioni di cittadini europei, attraverso i contributi stanziati dal Fse per iniziative di occupazione “attiva”. E nel nostro Paese, a che punto siamo?
La Riforma Fornero ha, sì, compiuto la giusta scelta di limitare gli ammortizzatori passivi, ma non ha avuto il coraggio di dare vita a un tavolo che portasse a decisioni sulle politiche attive di pubblica utilità, fermandosi, al contrario, ad auspicarne l’esistenza in un prossimo futuro. Né, del resto, la Riforma è giunta sino al punto di chiedere alle imprese, a fronte di maggiore flessibilità in uscita, un chiaro impegno a finanziare progetti di supporto alla ricollocazione professionale, rendendo obbligatorio – o almeno fortemente incentivato – l’outplacement per le aziende che terminano il rapporto di lavoro con un proprio collaboratore.
Ricette, queste, che, se portate avanti con la collaborazione di operatori di mercato qualificati e capillarmente diffusi sul territorio, contribuirebbero enormemente allo sviluppo di adeguate politiche attive del lavoro. Sotto l’attenta regia e i doverosi controlli dello Stato, si potrebbe infatti favorire la sempre più necessaria flessibiltà per le imprese creando, nel contempo, nuove opportunità professionali e una maggiore employability per le persone. Così facendo le, ahimè, poche risorse disponibili, verrebbero investite per ottenere la creazione di competenze, metodi e tecnologie capaci di supportare lo sviluppo professionale e i percorsi di carriera di chiunque. Ma non sarebbe meglio utilizzare “politiche attive” – si obietta – che mirino a incentivare direttamente le imprese ad assumere coloro che si trovano temporaneamente fuori dal mercato del lavoro?
Crediamo che si tratti di cose molto diverse: lo sforzo prioritario da compiere è quello di rimettere in moto le persone, da ogni punto di vista, educativo, psicologico e delle competenze. E questa è un’emergenza assoluta, certamente non surrogabile dalla concessione di eventuali incentivi alle aziende. Questi ultimi costituiscono infatti certamente un valido complemento, in grado di dare un impulso positivo, ma non risolvono il problema alla radice. L’esperienza insegna, tra l’altro, che sono davvero poche le aziende che assumono un determinato profilo in virtù degli incentivi concessi; viceversa, la dinamica è differente: prima viene selezionata una certa persona a fronte di un preciso bisogno, e, solo in un secondo momento, si verifica se esistano sgravi o incentivi disponibili.
Il rischio di una tale politica – che non definirei attiva – è dunque che il Pubblico spenda soldi per un’assunzione che sarebbe comunque avvenuta. Molto meglio, quindi, che Stato e Regioni finanzino la domanda di servizi, rivolgendosi direttamente alle persone. E, sottolineo, la domanda, non l’offerta proveniente dalle imprese erogatrici dei servizi. Si tratta, dunque, di andare verso una logica di mercato: affinché questo funzioni, consentendo alle persone di scegliere tra le migliori opportunità disponibili, è però decisivo che – soprattutto all’inizio – vi sia una chiara governance pubblica, in grado di selezionare solo quegli operatori che siano capaci di produrre effettivo valore aggiunto. Come? Utilizzando il sistema dell’accreditamento dei soggetti in grado di svolgere adeguatamente tali servizi, monitorando puntualmente l’efficacia ottenuta e remunerando i servizi di ricollocazione solo a esito positivo raggiunto. Meglio, quindi, puntare direttamente sulle persone.
Certo, per giungere a una valida programmazione delle misure, dei servizi e del loro monitoraggio, occorre avere la disponibilità di dati dettagliati circa i profili che si ritiene necessario supportare (disoccupati, over 50, ecc.) per poter in tal modo orientare adeguatamente le politiche attive; d’altra parte può risultare decisivo che la stessa Pubblica amministrazione, attraverso i suoi organismi, si ponga l’obiettivo di individuare le aree economiche che rappresentano le principali opportunità di impiego esistenti, facilitando in tal modo il lavoro degli operatori specializzati e attivando programmi di formazione selettiva. È inoltre assolutamente necessario che, ciò che fino a oggi è stato oggetto di utilissima sperimentazione “a macchia di leopardo” da parte di Regioni, Province ed Enti vari, diventi sistema nazionale. Che venga, cioè, rafforzata la governance unitaria del sistema dei servizi in modo tale che, pur tenendo conto delle differenze territoriali e di mercato, possa garantire logiche comuni.
Saprà il prossimo Governo – che qualunque conformazione si troverà ad avere, dovrà imprescindibilmente affrontare il tema del lavoro tra le prime priorità in agenda – incoraggiare i cittadini a tornare al lavoro e orientare chiaramente tutti gli attori in gioco verso lo sviluppo di quelle politiche attive così indispensabili per la crescita di persone e imprese nel nostro Paese?