La liquidazione dei crediti delle imprese da parte della Pubblica amministrazione potrebbe portare a un aumento in 5 anni di 250.000 occupati e a una crescita del Pil dell’1% per i primi 3 anni, fino ad arrivare al +1,5% nel 2018. E’ quanto ha riferito ieri il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, chiedendo al Governo un provvedimento per il pagamento immediato. Si unisce a questa richiesta anche Luigi Angeletti, Segretario Generale della Uil: «Bisogna pagare i debiti, molte imprese stanno chiudendo non perché hanno debiti, ma perché hanno crediti che non vengono pagati dalla Pubblica amministrazione. E siccome le cifre sono significative, è evidente che gli effetti sono disastrosi sul piano economico e occupazionale. Questo è ciò che il governo dovrebbe fare subito per evitare che la situazione sul piano sociale ed economico si destabilizzi».



A proposito di problemi occupazionali e sociali, a Bari si sta lavorando per evitare la chiusura dello stabilimento Bridgestone tra le minacce di occupazione della fabbrica da parte del Sindaco Emiliano e gli appelli del Presidente Vendola a una seria politica industriale che in Italia tutti sanno mancare. Secondo lei, di che tipo di politiche industriali abbiamo bisogno? 



Il tempo di creare lavoro con i soldi pubblici è finito, abbiamo speso tutto negli anni passati e non sempre con buoni risultati, anzi… In realtà, abbiamo bisogno eccome di una politica industriale, ma non si tratta di una politica per le singole imprese, in primis perché queste sono in ritardo rispetto all’Europa.

E quindi? Di cosa si tratta? 

Quello che in Italia a livello di politica industriale manca sono le condizioni in base alle quali nel nostro Paese gli investitori abbiano le stesse opportunità che hanno in Francia e in Germania. Quindi in cosa si traduce la politica industriale? Energia, logistica, trasporti, e soprattutto una Pubblica amministrazione che non sia ostile alle imprese come purtroppo oggi è in Italia. La carenza di questi fattori determina una scarsa convenienza, per non dire altro, a investire. L’unica azienda che ancora in Italia investe è la Fiat, con tutti i problemi che ha…



E’ noto e riprovevole che la comunicazione della chiusura sia stata data ai dirigenti e ai rappresentanti sindacali tramite videoconferenza dal Giappone, tra l’altro non come un’ipotesi ma come una decisione già presa. Detto questo, non c’è il rischio che una posizione così forte delle Istituzioni locali scoraggi ulteriormente gli investitori stranieri? 

E’ evidente, purtroppo è proprio così… è giusto che ci siano le reazioni dei sindacati e nessuno si scandalizza, il sindacato cerca di evitare disinvestimenti; ciò succede in tutti i paesi del mondo. E’ chiaro che le Istituzioni, essendo tali, devono avere atteggiamenti più adeguati, andando alla ricerca delle ragioni per cui un invertitore vuole rinunciare a investire. In tutti i casi, è evidente che bisogna togliere eventualmente gli alibi se fossero tali.

L’incertezza della situazione politica rende difficile fare previsioni sul nuovo esecutivo. Oltre a mettere le imprese nella condizione di essere pagate dalla Pa, cosa possiamo aspettarci dal nuovo governo?

Io credo una cosa molto semplice: la riduzione delle tasse. Tutte le altre iniziative necessarie richiedono un certo periodo di tempo per avere effetti, tempo che probabilmente questo governo non avrà. Quindi non ci sono che due cose da fare: per prima cosa bisogna ridurre le tasse sul lavoro, perché questo produce effetti benefici sia sulla domanda interna che per quanto riguarda il livello di competitività delle imprese; secondariamente, appunto, bisogna pagare i debiti.

 

Lei crede che il caso Bridgestone, trattandosi di un settore che fa parte dell’indotto dell’auto, sia condizionato dal caso Fiat? 

Sì, ma non in modo decisivo. Certo che essendo il mercato interno in discesa, ciò ha delle ripercussioni: se si comprano meno auto, è chiaro che l’indotto dell’industria automobilistica soffra… la Bridgestone però non lavora solo per la quota di mercato della Fiat, che credo molto modesta. Non ci hanno chiesto la cassa integrazione perché la domanda è diminuita, hanno detto che se ne vogliono andare. Se ne vogliono andare da uno stabilimento che finora ha funzionato, e bene. Nessuno ha potuto dimostrare il contrario. La Bridgestone se ne vuole andare perché ci sono altri posti dove è più conveniente investire. Come dicevo prima, si tratta di dare risposte non a un’impresa, ma al sistema imprese, migliorando le condizioni per chi investe. Perché oggi queste condizioni sono ostative, al di là delle belle chiacchiere che si fanno in Italia.

 

(Giuseppe Sabella)

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