Martedì scorso, in occasione del tradizionale convegno organizzato in memoria di Marco Biagi dal Centro Studi che porta il suo nome e da Adapt, Michele Tiraboschi, l’allievo che ne ha coraggiosamente proseguito il lavoro, ha presentato “Le ragioni di uno Statuto dei lavori”, ovvero ciò che le persone più vicine a Marco hanno sempre descritto come il “sogno” del giuslavorista bolognese. Si tratta di un “testo unico” e semplificatorio della normativa che, oltre all’abrogazione della legge Fornero, andrebbe a sostituire di fatto lo Statuto dei lavoratori, la famosa legge 300 del 1970, ancora per certi versi riferimento importante del diritto del lavoro italiano. La differenza tra lavoratori e lavori non è poca cosa, segna realmente il passaggio di due epoche e di due economie: quella fordista, della grande fabbrica, e quella globale, delle professioni e della conoscenza. Lunedì al Senato è stato presentato un disegno di legge che ripropone il sogno di Marco Biagi. Il testo reca infatti, al suo primo e unico articolo, una “delega al Governo per la redazione dello Statuto dei lavori”. Di questo abbiamo parlato in questa intervista con il Professor Tiraboschi.



Professore, quali sono le differenze culturali tra la proposta di “Statuto dei lavori” e lo “Statuto dei lavoratori”?

Lo “Statuto dei lavoratori” del 1970 è una legge di una persistente vitalità per quanto riguarda i valori e le funzioni. Oggi come allora rimane infatti centrale la tutela dei diritti fondamentali della persona che lavora così come della promozione del sindacato come elemento di democrazia e bilanciamento del potere del datore di lavoro nei luoghi di lavoro. Si tratta, tuttavia, di una legge datata che mostra tutti i suoi anni per quanto riguarda le singole disposizioni di dettaglio e alcune tecniche di tutela pensate per un mondo del lavoro che non c’è più, quello della fabbrica fordista.



In che modo e perché un “testo unico” sarebbe la strada più opportuna?

Negli anni Sessanta, l’80% dei lavoratori era fatto da operai della grande industria e braccianti agricoli. Questo mondo sta via via scomparendo, a vantaggio di nuovi mestieri e di nuove professioni, soprattutto nel terziario e nei servizi, che non hanno necessariamente natura subordinata e che, in ogni caso, non hanno rappresentazione e tutela all’interno dello “Statuto dei lavoratori”. Il quale tutela oggi poco meno del 50% della forza lavoro, mentre non trova applicazione per i tanti inoccupati, i disoccupati, gli atipici e i lavori irregolari in cui sono intrappolati, più di altri, i giovani e le donne. Per questo è fondamentale transitare rapidamente dallo “Statuto dei lavoratori” a un nuovo “Statuto dei lavori” riprendendo così l’elaborazione progettuale della riforma Biagi, ancora largamente inattuata. È un percorso ineludibile, soprattutto per chi vuole preservare i valori e la funzione dello Statuto, quello di adeguare la strumentazione giuridica al nuovo mondo del lavoro per estendere le tutele a quanti, oggi come allora, risultano esclusi ed emarginati. Questo significa non la cancellazione, ma la naturale evoluzione dello Statuto, portando a maturazione il percorso riformatore avviato con la legge Treu e la riforma Biagi e correggendo i gravi errori della legge Fornero.



A quali priorità risponde la proposta di “Statuto dei lavori”?

La priorità di oggi è quella dell’inclusione, in un Paese dove solo 22 dei 60 milioni di abitanti hanno un lavoro regolare. Aumentare, come è possibile, la popolazione lavorativa di circa 4 milioni di unità significa non solo contrastare il sommerso, ma anche aumentare la produttività del sistema Paese e la quantità di risorse pubbliche disponibili con grande vantaggio per tutti. È da qui che deve partire il processo riformatore, da una nuova alleanza tra lavoratori e imprese nella prospettiva del bene comune e della collaborazione per cambiare, in meglio e in modo pragmatico, la nostra società che vede nel mercato del lavoro ancora troppe sofferenze, ingiustizie e discriminazioni.

 

Il Pdl in campagna elettorale ha parlato di rilancio dell’occupazione. Ciò potrebbe avvenire attraverso le facilitazioni del nuovo testo?

 

Un moderno “Statuto dei lavori” si occupa della garanzia dei diritti fondamentali della persona che lavora, qualunque sia la tipologia contrattuale e persino a prescindere dalla vecchia distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato. A tutti va garantito il diritto alla tutela della salute e sicurezza negli ambienti di lavoro, il diritto a un compenso equo, commisurato alla quantità, ma anche alla qualità del lavoro, tale in ogni caso da garantire davvero il diritto costituzionale a una retribuzione sufficiente per mantenere se stessi e la propria famiglia. E, poi, via via, vanno altri diritti “promozionali” che garantiscano cioè al lavoratore piena occupabilità e continuità di reddito nelle sempre più frequenti transizioni occupazionali che caratterizzano i nuovi mercati del lavoro e che richiedono un continuo aggiornamento professionale come vera garanzia di stabilità del lavoro.

 

Quali scelte dovrebbe prioritariamente fare il nuovo esecutivo per rispondere alla situazione attuale?

 

La vera emergenza è quella educativa e formativa, occorre ripensare il modo di insegnare ai nostri studenti e accompagnarli nella transizione dalla scuola al lavoro con contratti a reale contenuto formativo.

 

Cosa pensa del “Piano del Lavoro” della Cgil?

 

Nel piano della Cgil vedo sincera tensione ideale e progettuale verso un ritorno alla centralità del lavoro nel dibattito pubblico con il problema, però, che molte delle idee proposte paiono irrealizzabili per mancanza di risorse pubbliche. Vedo insomma la Cgil ancora ancorata a una visione pubblicistica del mercato del lavoro e diffidente verso le logiche bilaterali e sussidiarie.

 

E dell’Agenda Squinzi?

Vede, il punto non è il piano Camusso o l’agenda Squinzi, quanto la capacità di tradurre in un accordo l’elenco di buone intenzioni che tutti portano al tavolo del confronto. Io credo che proprio il clima di incertezza politica e la crisi della rappresentanza non solo politica ma anche istituzionale e sindacale dovrebbero portare a un innovativo accordo sui temi del lavoro e della crescita che non sia un “libro dei sogni” o, peggio, la solita “lista della spesa” con richieste irrealizzabili al Governo. Qui è venuto il momento di agire in chiave sussidiaria puntando su accordi decentrati e aziendali di produttività con chiara determinazione di come il valore aggiunto debba poi venire ridistribuito tra chi ha contribuito a crearlo. In altri termini, credo sia giunto il tempo della partecipazione e di relazioni industriali che pongano al centro la crescita e lo sviluppo.

 

Il noto giuslavorista Pietro Ichino si è staccato dal Pd non condividendo la linea Fassina che il partito ha di fatto sposato, definendola antieuropeista e aderendo così all’Agenda di Mario Monti. Cosa pensa delle proposte in ambito di economia e lavoro che arrivano da Scelta Civica?

 

Un conto sono le proposte di Ichino, altra cosa il programma ufficiale di Scelta Civica che ha virato, grazie alle buone intuizioni di Giuliano Cazzola, verso l’idea della contrattazione di prossimità mettendo invece in soffitta l’idea utopistica del contratto unico sponsorizzata da Ichino.

 

Prima del Governo Monti, la legislazione lavoristica è stata segnata dal pensiero di Marco Biagi, soprattutto nella legge Treu e nella legge Biagi che lei ha portato a compimento. Quali sono le differenze tra la riforma Fornero e le riforme che l’hanno preceduta?

 

Ne indico una sola, che però dà la misura della distanza siderale tra legge Biagi e riforma Fornero. La logica della legge Fornero è il centralismo regolatorio frutto della sfiducia nei corpi intermedi e nel territorio là dove la legge Biagi è un trionfo della sussidiarietà e del piano coinvolgimento delle parti sociali a cui viene delegata la regolazione concreta del mercato del lavoro.

 

Marco Biagi ha sempre avuto a cuore il problema dei giovani, ma di fatto la scarsa capacità del sistema di attuare la sua legge ha portato al mercato “duale”. Il Congresso della Cisl si apre, in materia di occupazione giovanile, all’insegna del superamento del dualismo non tra lavoro precario e lavoro dipendente, ma tra lavoro autonomo non tutelato e lavoro dipendente. Essendo la Cisl un attore sociale importante, può ciò contribuire al definitivo riconoscimento della flessibilità buona?

 

Ottimo che la Cisl abbia colto questa intuizione e l’abbia autorevolmente rilanciata come bene scritto da Raffaele Bonanni nel suo editoriale del 19 marzo in ricordo di Marco Biagi (su Il Sole 24 Ore, ndr). È da qui, da questa progettualità che dobbiamo partire ed è bene che sia il sindacato, più che il Governo, a prendere con decisione l’iniziativa. Tuttavia, il mercato duale esisteva prima della legge Biagi ed era fatto da un esercito di 5 milioni di lavoratori in nero che si sommava con un esercito di disoccupati e di inattivi. Grazie alla legge Biagi si sono creati robusti percorsi di inclusione sociale che non hanno prodotto tutti i risultati sperati per il boicottaggio operato da una parte del movimento sindacale. La legge Biagi era la piattaforma per lanciare appunto lo “Statuto dei lavori” che aveva come suo presupposto il superamento delle vecchie categorie del lavoro autonomo e del lavoro subordinato per costruire un mercato unico del lavoro dove contano le tutele e non le forme o tipologie contrattuali. Ma lo Statuto è un’utopia se prima non si assorbe il molto lavoro nero e irregolare e non si creano robusti canali di integrazione tra scuola e lavoro mediante il rilancio dell’apprendistato e dell’alternanza scuola lavoro.

 

(Giuseppe Sabella)