Assieme a quella delle pensioni, è stata, indubbiamente, una tra le riforme più controverse mai varate in Italia. Non piaceva all’epoca della stesura e non piace adesso che inizia a produrre effetti concreti. Secondo una ricerca effettuata da Confartigianato, il 65% delle imprese ritiene la legge che ha modificato la disciplina sul mercato del lavoro estremamente dannosa. Del resto, se prima del luglio 2012, quanto è stata licenziata, la disoccupazione viaggiava al 10,6%, oggi siamo all’11,7%. Neanche al Pd, in ogni caso, la riforma Fornero è mai piaciuta. Come dovrebbe muoversi, se mai andrà al governo? Lo abbiamo chiesto a Tiziano Treu, professore di Diritto del lavoro nell’Università Cattolica del Sacro Cuore.



La riforma va cambiata?

Modificare la riforma del mercato del lavoro è indubbiamente uno degli obiettivi del Pd come, del resto, viene affermato negli otto punti di Bersani. Tuttavia, non credo che sarà la priorità assoluta. 

Quale sarà, allora?

Occorrono interventi di emergenza per l’occupazione giovanile. Attraverso un programma di offerta di opportunità di lavoro volto a incentivare chi assume i giovani e a favorire l’apprendistati. In via straordinaria, per esempio, si potrebbero del tutto azzerare i costi su questo tipo di contratto. Contestualmente, va fermata la crescita del costo delle partite Iva. Quelle vere, che non celino cioè un rapporto di subordinazione, laddove hanno costi crescenti non sono sostenibili. Specialmente per un giovane che si avvia a praticare una professione.



Sin qui, ha parlato di provvedimenti specifici. Non crede che la riforma vada cambiare nella sua sostanza?

Nella sua sostanza, no. Se ogni volta che cambia un governo si perdono uno o due anni per ripensare come riformare da capo la disciplina, le suddette emergenze non si risolveranno mai.

Eppure, in molti affermano che la riforma abbi reso il sistema decisamente più rigido…

Dai primi dati del monitoraggio sugli effetti della riforma Fornero, è emerso un calo dei contratti a progetto e un aumento di quelli a tempo determinato. Questi ultimi andrebbero favoriti ulteriormente. In tal senso, è possibile agire sulla flessibilità “buona”, alleggerendo ulteriormente i costi, o togliendo le causali che, sin qui, hanno prodotto solo problemi. Si potrebbe, per esempio, togliere la causale per due anni e, successivamente, incentivare la trasformazione in tempo indeterminato.



 

Non crede che sarebbe necessario agire anche sulla flessibilità in uscita?

In tal caso, è prudente non cambiare nulla. Le cause di lavoro sui licenziamenti sono poche e, in larga parte, vengono conciliate. Riaprire il tormentone dell’articolo 18 non farebbe altro che gettare benzina sul fuoco e provocare tensioni sociali. Piuttosto, sarebbe necessario agire, come è stato fatto nei paesi europei più avanzati, sulla flessibilità funzionale.

 

Ci spieghi.

Quello che serve alle imprese, non è poter licenziare facilmente, ma che i lavoratori siano flessibili dal punto di vista degli orari di lavoro e dello svolgimento delle mansioni. Tuttavia, per modificare il quadro in tal senso, non sono necessari grandi interventi normativi. Sono sufficienti gli accordi tra le parti o con piccoli ritocchi alla legge.

 

I sindacati come reagiranno a misure di questo tipo?

Tutto dipende da come si agirà. Anche in Italia, buoni esempi di aziende che hanno favorito turnazioni flessibili senza creare disagi particolari ai dipendenti e senza irritare i sindacati ci sono.

 

(Paolo Nessi)