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Il problema della disoccupazione giovanile, ancora una volta, è sotto gli occhi di tutti. Il fenomeno ha ormai raggiunto picchi di gravità assoluta e, come evidenziato da più parti in questi giorni, è giunto a interessare – come mai prima d’ora – anche i laureati, in misura davvero preoccupante. Nel 2012 si arrivano a contare, infatti, quasi 200mila disoccupati tra i laureati under 35, con un aumento di circa il 28% rispetto al 2011. La crisi colpisce quindi anche i giovani con i titoli di studio più elevati: a confronto con il 2008 si registra una crescita del fenomeno, addirittura, del 43%.



Che siano laureati o meno, i nostri giovani sono dunque travolti da uno tsunami di proporzioni inusitate e, francamente, inaccettabili. Molto – forse troppo – è stato scritto su questo problema, ma il bandolo della matassa sembra essere ancora disperso tra innumerevoli mani che, un po’ a tentoni e molto in modo autoreferenziale, non riescono a trovare il modo di dipanarlo, né provano ad aiutarsi.



Manca, infatti, un preciso coordinamento tra gli attori in gioco e manca, soprattutto, il chiaro intento di provare a generare valore aggiunto, per il bene di tutti. Cosa sta, invece, accadendo? Che lo Stato non solo non si occupa di questo indispensabile coordinamento, ma non è minimamente interessato a pianificare – come si fa in altri paesi – l’accesso all’offerta formativa in relazione al fabbisogno lavorativo. La scuola, dal canto suo, totalmente autoreferenziale, non si pone minimamente il problema, a ogni livello, di valutare e dare strada al possibile inserimento nel mondo del lavoro dei talenti che pur incontra: il disallineamento tra scuola e lavoro impera, così, indisturbato, esattamente come, non pungolati, risultano essere i docenti: spesso “seduti” e demotivati.



Chi si occupa di formazione professionale, poi, solo raramente prende le mosse dalle reali esigenze delle imprese per creare percorsi utili all’inserimento lavorativo, muovendosi secondo una logica che non parte dalla domanda ma, ahimè, dall’altrettanto autoreferenziale offerta di servizi già pronti e, spesso, poco efficaci. E le aziende? Purtroppo non vivono minimamente la responsabilità educativa cui pure sono, nei fatti, chiamate quando s’imbattono in un giovane e quasi mai si mettono nell’ottica di costruire percorsi formativi capaci di creare valore aggiunto, ad esempio attraverso l’apprendistato, ma cercano, piuttosto, scorciatoie a basso costo.

Le Università, ben lungi dal programmare i corsi accademici in sinergia con il mondo delle imprese – o almeno leggendo i dati circa i fabbisogni occupazionali -, salvo che in rari casi si limitano a inefficaci servizi di placement post laurea con gli esiti che tutti conosciamo. Per non parlare di adulti, famiglie e media che – non si capisce bene con quale rapporto causa effetto – contribuiscono molto spesso alla divulgazione di una cultura che vede nell’occupazione manuale una strada “di serie b”, nella laurea purché sia un successo, a prescindere dalla strade che poi aprirà (?) al giovane, e nella chimera del posto fisso a vita, senza considerare la sua produttività, né la generazione di competenze utili alla persona, il sogno da perseguire a ogni costo, anche rinunciando, talvolta, a opportunità e forme contrattuali diverse, ma capaci di generare quell’impiegabilità che, sola, costituisce una strada percorribile per la crescita dei nostri giovani e della nostra economia. Occupazione? Poca e improduttiva, dunque. E la matassa continua a rotolare, insieme al nostro Paese…

Da cosa, allora, ripartire? Paradossalmente, proprio dai giovani: dalla loro pervicace curiosità e dal loro strutturale desiderio di compimento. Sì, per tornare a creare valore, è proprio di giovani così che abbiamo bisogno. Ragazzi che siano in grado di non affondare nel nichilismo a cui tutto sembra condurli ma che, al contrario, abbiano il proprio punto di riscossa nella capacità di sacrificarsi – senza paura della fatica o della provvisorietà di certe opportunità lavorative – per perseguire una strada di bellezza, gioia, verità e tentare di dare un contributo, partecipare, a una quanto mai necessaria creazione di valore, per tutto il mondo. E proprio questa capacità di creare valore – noi che siamo più avanti nel percorso della vita – dobbiamo, per primi, ricominciare a considerare quale criterio prioritario delle nostre iniziative, a ogni livello.

Di giovani tesi al raggiungimento di nuovi, anche se faticosi obiettivi, abbiamo infatti, oggi più che mai, bisogno, proprio perché ci conducono a rimettere in discussione tutto, per trovare nuove, efficaci, soluzioni. Se sapranno accettare la durezza della strada che si para loro davanti, i nostri ragazzi saranno infatti i più liberi nel contribuire a un rinnovamento necessario, i più capaci di battere in breccia chi cerca solo di mantenere uno status quo che, alla luce dei fatti, si rivela non più adeguato e ormai pernicioso per tutti. Mossi da curiosità e desiderio saranno i nostri stessi giovani che ci costringeranno a decidere se generare finalmente un contesto in grado di favorire, valorizzare, sostenere proprio lo sviluppo di queste loro caratteristiche, che stanno alla base di ogni autentica innovazione e di ogni costruzione duratura, o se, al contrario, insistere, autolesionisticamente, in un processo di sistematico soffocamento e di reiterata delusione di queste aspettative strutturali.

A tutti noi, protagonisti della società presente, a ogni livello, la domanda: vogliamo continuare a deludere i nostri giovani, bloccandone la possibilità di incidenza positiva o sapremo, finalmente, costruire un Sistema scolastico, formativo, professionale, aziendale, di Governo, capace di valorizzare la strada maestra della curiosità e del desiderio umani?

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