Lo stabilimento Bridgestone di Bari chiuderà entro la prima metà del 2014 lasciando a casa 950 lavoratori. La multinazionale giapponese ha motivato la scelta con il fatto che la domanda di pneumatici da autovettura in Europa è calata in modo vistoso, scendendo dai 300 milioni di unità a soli 261 milioni (-13%). Gli unici a ottenere risultati soddisfacenti in Europa sono i produttori di pneumatici di alta gamma, mentre per il resto del settore la ripresa arriverà non prima del 2020. Ilsussidiario.net ha intervistato Luigi Prosperetti, ordinario di Politica economica all’Università degli studi di Milano.



La chiusura dello stabilimento Bridgestone di Bari è un paradigma dei problemi del lavoro nel nostro Paese?

Sì. Il nostro Paese è in una situazione di concorrenza internazionale, e quindi dobbiamo continuare a offrire delle localizzazioni appetibili alle imprese multinazionali o queste rischiano di andare da un’altra parte. Oltre a prendere atto delle chiusure, dovremmo riflettere anche sulle mancate aperture. Tutte le informazioni e gli studi internazionali convergono nel dire che l’Italia da molti anni attrae pochissimi investimenti stranieri.



Per quali motivi?

Per localizzare un’attività produttiva ci vuole un’infinità di permessi, ci sono condizioni molto rigide e costi del lavoro che non sono competitivi rispetto a molte altre localizzazioni. Dobbiamo interrogarci molto seriamente su quanto sia attraente l’Italia per le imprese. Se vogliamo dare lavoro ai giovani abbiamo bisogno di imprese che si localizzino in Italia, investano e facciano crescere i loro poli produttivi.

Quali sono le principali differenze tra l’Italia e il resto del mondo?

Un avvocato di mia conoscenza, che vive da una ventina di anni in Cina, mi ha raccontato che quando arrivano clienti cinesi che vogliono aprire un’azienda in Italia e gli chiedono come sia il quadro normativo e legislativo dei permessi al lavoro, lui glielo spiega e ottiene reazioni di totale incredulità. La Cina ovviamente rappresenta l’eccesso opposto, in quanto è un Paese troppo poco regolato e non dobbiamo certo prenderlo come esempio sociale da seguire. E’ un fatto però che gli imprenditori cinesi scelgono di collocarsi in altri paesi europei e non in Italia. Non è quindi un singolo articolo di una certa legge a scoraggiare gli insediamenti.



Qual è l’origine storica di questa situazione?

Sono le stratificazioni di decenni e decenni in cui ci siamo illusi di essere ricchi e di non essere davvero in concorrenza con altri paesi, ma di poterci permettere ogni sorta di lussi e di complicazioni. Ora ci siamo resi conto del fatto che questa stagione è un’illusione. Bisognerebbe quindi ripartire da zero, altrimenti ogni volta facciamo una legge sul lavoro che aggiunge regole e complica ulteriormente le cose.

 

Che cosa bisogna fare invece?

Chiediamoci piuttosto che cosa vogliamo tutelare, perché e quanto, e quali livelli di tutela possiamo permetterci. Occorre riesaminare il sistema autorizzativo in una prospettiva di totale freschezza. L’alternativa è quella di continuare a perdere aziende, con i nostri giovani che non trovano lavoro e la situazione sociale che si avvita.

 

Per l’ex ministro Maurizio Sacconi, la riforma Fornero ha aumentato la rigidità del lavoro favorendo la disoccupazione. Cosa ne pensa?

Neppure i governi Berlusconi hanno fatto alcunché per aumentare l’occupazione. E’ quindi anche questa un’occasione per partire da zero, altrimenti ognuno prende spunto dalla riforma o dalla legge precedente e aggiunge dei pezzi. In questo modo si finisce per scoraggiare ulteriormente le aziende.

 

Che cosa significa partire da zero?

Bisogna partire dai giovani, perché il dramma italiano è che i giovani non trovano lavoro o quando lo trovano spesso non sono lavori che danno prospettive, che formano e che potranno esistere ancora tra 20 anni. Ogni processo di riforma del mercato italiano deve partire dalla domanda: “Che cosa possiamo fare per dare lavoro ai giovani”. Se noi rispondiamo in modo soddisfacente a questa domanda, troveremo anche delle soluzioni magari più complicate per tutelare i lavoratori più anziani. Ora però veniamo da decenni in cui la prospettiva è stata quella opposta: ci siamo chiesti come tutelare il lavoro di chi ce l’aveva già, e solo in seconda battuta ci siamo occupati dei giovani. Nelle regioni meridionali i giovani hanno dei tassi di disoccupazione del 30% o più e le imprese chiudono.

 

(Pietro Vernizzi)