Che la pressione fiscale pesi sempre di più, gli italiani se ne erano già resi conto. Ma oggi lo studio di Ires (Istituto di ricerche economiche e sociali della Cgil) e Cer (Centro Europa Ricerche) su fisco e salari ha quantificato l’aumento di tasse avvenuto negli ultimi sei anni. L’aggravio è stato, in media, di 500 euro all’anno in più per i lavoratori single (+1,9%), di 600 euro per quelli con famiglia a carico (+2,3%), per un totale, dunque, di 3600 euro. A determinare questo incremento a carico dei contribuenti il fiscal drag (che tradotto sarebbe il drenaggio fiscale ovvero il prelievo in più causato dall’aumento nominale dei salari dovuto all’inflazione, che fa salire i redditi, facendoli ricadere negli scaglioni di aliquota superiore) e l’aumento delle addizionali Irpef. Nelle casse dello Stato, dal 2008 a oggi, secondo questo rapporto, sono finiti 10 miliardi. Ilsussidiario.net ha chiesto a Maurizio Del Conte, docente di diritto del lavoro all’Università Bocconi di Milano di analizzare i dati presentati dalla Cgil.
Come interpretiamo questo studio?
Va visto nel più generale contesto di un cuneo fiscale del mercato del lavoro italiano assolutamente sproporzionato rispetto al servizio previdenziale che viene erogato, perché nel rapporto con i paesi europei possiamo trovare degli esempi, come la Danimarca, dove in effetti il cuneo fiscale è ancora più elevato del nostro, ma a un prelievo più elevato corrispondono servizi molto più elevati.
In Italia cosa succede invece?
Ci troviamo di fronte a una situazione del tutto peculiare, con un costo del lavoro molto alto a fronte di un sistema di welfare non all’altezza e questo genera per il Paese nel suo complesso un problema di competitività.
Ma questa pressione fiscale che c’è tuttora serve davvero per lo sviluppo del Paese?
Assolutamente no, anche perché il Fisco serve, per lo sviluppo del Paese, quando restituisce in termini di servizi ai cittadini e al sistema delle imprese quello che ha incamerato. Purtroppo nel nostro Paese non è così, noi abbiamo dei servizi, delle infrastrutture, un sistema generale di welfare che non aiuta lo sviluppo del Paese e la sua competitività nel contesto internazionale. Non è che il fisco di per sé sia negativo per lo sviluppo dell’economia, il problema è che quando c’è una pressione fiscale a cui non corrisponde un intervento della mano pubblica in generale di aiuto al sistema produttivo allora abbiamo un cortocircuito assolutamente negativo.
È lecito a questo punto chiedersi: dove sono andati a finire questi soldi?
Questo è il problema vero, perché molto spesso questi soldi servono a coprire buchi che non hanno nulla a che fare con i problemi dei lavoratori stessi, di fatto si usano questi denari per andare a coprire in generale il debito pubblico e una serie di spese che non ritornano in alcun modo a favore del lavoratore.
Se, per assurdo, volessimo far recuperare quanto speso in un anno da un lavoratore in tasse, 500 euro quindi, un’azienda di quanto dovrebbe aumentare il salario lordo?
Se un’azienda aumentasse il salario lordo il paradosso è che su quell’aumento di salario c’è quasi un 50% di imposizione fiscale. Per ottenere un aumento netto di 500 euro in busta dovrebbe spendere molto di più, oltre i mille euro e questo genererebbe un circuito impossibile da attivare per le imprese. Ma il problema non è tanto quello di chiedere aumenti salari indiscriminati se non quello di far consentire alle imprese di distribuire parte dei profitti ai lavoratori senza doverli versare al Fisco.
Secondo lei, quali provvedimenti sulla pressione fiscale il nuovo Governo dovrebbe adottare?
In questo momento c’è un problema gravissimo di disoccupazione giovanile, credo quindi, che sia necessario introdurre per i giovani un’aliquota contributiva al 10% per tutti i neo assunti (oggi è al 33%). Ci sono degli studi che mostrano come sia sostenibile adottare questa misura nel medio periodo, mentre, almeno per il momento, lascerei invariata la parte strettamente fiscale.
(Elena Pescucci)