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La grave instabilità lavorativa – soprattutto per quanto riguarda l’occupazione giovanile – e la pressoché totale assenza di coordinamento tra gli attori in gioco nella ricerca di soluzioni capaci di generare valore aggiunto e, dunque, nuovi posti di lavoro per tutti, sono, purtroppo, una triste ed evidente realtà dei drammatici tempi che stiamo vivendo. Il preoccupante tasso di disoccupazione giovanile cui siamo giunti (37,8% dato Istat a febbraio 2013) grida, infatti, la necessità di affrontare con determinazione tutte le sfide utili a creare nuovo sviluppo e, quindi, nuova occupazione.



Tra le principali sfide figura certamente quella riguardante l’apprendistato, che anche la Riforma Fornero ha voluto valorizzare, indicandolo come la “modalità prevalente di ingresso nel mondo del lavoro”, proprio in quanto strumento che dovrebbe riuscire a realizzare un efficace trait d’union tra scuola e inserimento stabile nelle imprese. Stabile, sì, perché lo scopo di questo istituto contrattuale è proprio l’inserimento, tendenzialmente a tempo indeterminato – e comunque non a breve termine -, del giovane a fronte di un reciproco e fruttuoso investimento formativo e professionale. Anche il recente monitoraggio sull’apprendistato realizzato dal ministero del Lavoro e pubblicato in marzo conferma, infatti, che il numero di contratti di apprendistato trasformati in un’assunzione a tempo indeterminato presso la stessa azienda sono in lieve ma costante crescita: 180.000 nel 2011 a fronte di poco più di 157.000 del 2009.



Paradossalmente però, l’utilizzo di questo strumento si scontra proprio con un assetto culturale – che, ahimé, accomuna persone e imprese – per cui entrambe sono decisamente più orientate (e talvolta, purtroppo, necessitate) a rapide soluzioni di breve termine, senza, invece, avere la decisiva disponibilità ad investire positivamente il proprio tempo in una logica di costruzione personale e imprenditoriale di medio e lungo termine, senza della quale diventa impossibile generare sviluppo stabile per il nostro Paese.

Che fare, allora? L’attuale configurazione dell’apprendistato professionalizzante presenta già notevoli passi avanti rispetto al passato: non si tratta dunque di buttare tutto a mare solo perché imperfetto, ma di provare, piuttosto, a rendere ancora più facile, già nel breve, l’uso di questo importantissimo strumento. Come? Incentivandolo ulteriormente, mediante l’abbattimento completo di contributi sociali e riducendo per legge i minimi retributivi previsti per gli apprendisti, così da spingere fortemente le imprese a farsi carico di progetti di medio-lungo termine, basati su cospicui investimenti formativi.



Da questo punto di vista siamo convinti che il ruolo delle Agenzie per il lavoro possa costituire un grande e prezioso aiuto alla corretta divulgazione dell’apprendistato. Innanzitutto perché tecnicamente capaci di supportare le parti in causa circa l’espletamento delle formalità amministrative e la corretta individuazione e gestione dei percorsi formativi necessari: con la loro capillare presenza sul territorio le Apl sono infatti in grado di diffondere, soprattutto nelle piccole e medie imprese, tutto il know-how disponibile per l’utilizzo dello strumento. E questo è tanto più vero in caso di gestione diretta, attraverso il contratto di somministrazione, degli apprendisti nelle aziende. In tal modo, infatti, la realizzazione del piano formativo è direttamente a cura delle Agenzie, che possono così individuare le migliori soluzioni per tutti.

Le persone potranno sviluppare un’ importante tappa del proprio percorso lavorativo – perseguendo una sempre più necessaria employability – avendo nelle Apl un prezioso alleato per una maggiore sicurezza professionale nel caso in cui si presentasse la necessità di una loro ricollocazione: ipotesi purtroppo non impossibile, visti i tempi in cui ci troviamo, che non sempre permettono alle imprese una chiara visibilità di medio termine. Le aziende, dal canto loro, saranno orientate e supportate nella costruzione di professionalità sempre più utili per competere nel medio e lungo termine, in un mercato che richiede competenze sempre più mirate.

Inoltre, grazie alla loro bilateralità, le Agenzie per il lavoro hanno a disposizione fondi da dedicare alla formazione e questo potrebbe facilitarle nel divenire un partner sempre più strategico per il Governo e le Regioni nel diffondere su larga scala, verso le imprese e verso i giovani che si affacciano al mondo del lavoro, questa cultura della creazione di valore nel lavoro. Perché non dare vita, allora, a una politica attiva pubblica che, tramite voucher alle imprese con meno di 100 dipendenti, stimoli all’acquisizione di servizi al lavoro per l’avviamento di apprendisti tramite le Agenzie?

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