Cgil, Cisl, Uil e Confindustria hanno raggiunto un accordo sul documento attraverso cui si chiede al governo di detassare i premi di produttività. Il testo sarà presentato al premier Enrico Letta, come piattaforma congiunta delle Parti sociali. Un precedente accordo, che prevedeva contributi anche per il demansionamento e il controllo a distanza dei dipendenti, era stato bocciato dalla Cgil. Tutti i sindacati si sono invece espressi a favore della nuova intesa, in cui si parla soltanto di incentivi alla produttività e sugli orari di lavoro. Ilsussidiario.net ha intervistato Pietro Antonio Varesi, professore di Diritto del lavoro all’Università cattolica.
Come valuta il documento in cui si propone di detassare i premi di produttività?
Valuto in modo positivo il fatto che si sia raggiunto un ampio accordo che comprende anche la Cgil, perché ciò permette una maggiore diffusione di questa misura. Sono stati eliminati alcuni passaggi “spinosi”, che rischiavano di determinare una rottura a livello aziendale tra le diverse organizzazioni, impedendo così l’ampliamento della base dell’accordo. Le Parti sociali cercano di influenzare il programma di governo, chiedendogli di finanziare le misure a sostegno dei premi.
Che cosa cambierà per i lavoratori con questa nuova intesa?
Tutto dipende da quanti soldi ci metterà il governo e in che misura detasserà. Ma se il sostegno dell’esecutivo sarà significativo, ciò permetterà degli accordi a livello aziendale finalizzati a incrementare la produttività, prevedendo delle nuove forme di orario o altre misure. In cambio di queste ultime, ai lavoratori sarà destinata una certa somma. Poniamo quindi che, con un prelievo fiscale del 35% sui premi di produttività, il lavoratore incassi 1.200 euro netti di bonus all’anno: se dovesse passare una detassazione totale questa somma salirebbe a 2.000 euro.
Come funzionano questi premi di risultato?
La contrattazione collettiva prevede premi di risultato legati alle performance dell’azienda, e non ovviamente a quelle del singolo dipendente. A livello aziendale sono individuati dei parametri, come il fatturato o l’utile, e sulla base di questi parametri sono erogati dei premi.
E i premi legati agli orari di lavoro?
Anche in questo caso non riguardano il singolo lavoratore, ma misure collettive per l’intera comunità dei dipendenti. Poniamo che in un’azienda si passi da due a tre turni, e quindi si realizzi un forte beneficio legato a una maggiore produttività in quanto gli impianti sono utilizzati di più. Ciò consente un fatturato più elevato, e quindi ai lavoratori sono riconosciuti dei premi che, nello spirito dell’accordo, dovrebbero essere detassati.
Per quale motivo la Cgil si è opposta invece alla detassazione dei premi legati a demansionamento e controllo a distanza dei lavoratori?
La Cgil temeva i possibili effetti di una flessibilità organizzativa in grado di punire la professionalità dei lavoratori attraverso il demansionamento, compensandola con la corresponsione di un premio. D’altra parte il controllo a distanza presentava il rischio che si andasse verso forme di verifica sull’attività dei dipendenti che potessero trasformarsi in un appesantimento eccessivo del lavoro. Secondo la Cgil, un operaio poteva essere messo in un percorso tale da costringerlo a mantenere determinati ritmi o a ottenere particolari risultati.
E’ un bene che questa parte sia stata stralciata dall’accordo?
Bisognerebbe valutare se si tratti di rischi reali o se appaiano tali soltanto alla Cgil. Sta di fatto che il principale sindacato italiano li ha valutati così, motivando il suo dissenso sulla base di questi rischi. Il fatto di eliminarli dai contenuti dell’accordo, aumenta la base dei consensi di cui gode quest’ultimo. Ora manca solo che il nuovo governo stanzi i soldi necessari.
(Pietro Vernizzi)