I punti programmatici del discorso del premier in materia previdenziale appaiono piuttosto ambiziosi: Enrico Letta, anzitutto, ha promesso la risoluzione immediata della vicenda degli esodati, quei cittadini rimasti o in procinto di rimanere senza reddito da pensione o da lavoro a causa del repentino inasprimento dei requisiti. Ma questo era un atto dovuto. Non lo è, invece, la proposta di modificare la riforma Fornero introducendo un meccanismo di flessibilità che preveda incentivi o disincentivi in base alla decisione di accedere al regime pensionistico più tardi o in anticipo. Lo stesso Letta, nei mesi scorsi,in diversi interventi, aveva suggerito una forbice compresa tra i 62 e 70 anni. Altra ipotesi rivoluzionaria, consiste nella staffetta tra giovani e anziani: in sostanza, i padri dovrebbero poter accettare di lavorare part time per la propria azienda a patto che questa consentisse il subentro del figlio. Si tratterebbe di meccanismo auspicabile, se, come ci spiega Maurizio Del Conte, professore di Diritto del Lavoro all’Università Bocconi, non rischiasse di mettere in crisi le casse dell’Inps.
Professore, pensa che gli spunti previdenziali di Enrico Letta siano concretamente fattibili e sostenibili?
Il presidente del Consiglio, nel suo discorso, si è limitato a enunciare una serie di principi, senza entrare nel dettaglio. In particolare, non ha fatto cenno alla copertura necessaria, né ha tenuto conto, oltretutto, che non si può mettere mano all’attuale sistema a spizzichi: occorre ridisegnarlo nella sua complessità. Parlare di esodati, di flessibilità delle pensioni e dello spostamento delle poste di bilancio verso il welfare, implica, infatti, l’aver immaginato una manovra radicale. Tale manovra, deve trarre le mosse, anzitutto, da una verifica di sostenibilità. In tal senso, mi pare evidente che non sia questo il momento adatto per questo tipo di intervento. Non ci sono le risorse. E, fin quando non ripartirà l’economia, continueranno a non esserci.
Nel merito, cosa ne pensa della posizione del premier sugli esodati?
Sono d’accordo sul fatto che vadano salvaguardati a prescindere. Nei loro confronti, infatti, si è verificata una violazione che in uno Stato di diritto non è accettabile. Sanare questa violazione rappresenta una priorità. Si tratta, in sostanza, di correggere un errore.
Trova ragionevole introdurre meccanismi di flessibilità nell’accesso al regime previdenziale?
Di per sé, ha senso. Ma, anche in questo caso, non si tratta di una riforma a costo zero.
Non crede che il costo potrebbe essere notevolmente ridotto se il disincentivo per chi va in pensione in anticipo fosse piuttosto elevato?
Dobbiamo considerare che le nostre pensioni sono molto basse in relazione al costo della vita. Se la flessibilità dovesse prevedere, per esempio, che chi va in pensione a 62 anni prenda il 50-60% dell’assegno, ci troveremmo di fronte a un meccanismo fasullo. Mi spiego: nessuno, ragionevolmente, ne approfitterà. Quindi, o si realizza un provvedimento che consenta la libera scelta dei cittadini e dei lavoratori, e che preveda un sacrificio tollerabile, o, in caso contrario, se il sacrificio cioè risultasse intollerabile, avremmo l’ennesimo flop.
Come giudica, invece, la staffetta tra giovani e anziani?
Dal punto di vista teorico, è una proposta interessante. Consentirebbe lo sblocco del turn over, a oggi uno dei più grandi problemi. Tuttavia, costa un sacco di soldi. L’anziano che accetta il part-time deve, infatti, poter maturare, in ogni caso, i contributi che gli erano garantiti con lo stipendio pieno, per evitare di trovarsi con una pensione che non gli consenta di sopravvivere. L’Inps, quindi, gli dovrebbe riconoscere i contributi figurativi per quella parte di lavoro che non sarebbe più svolta. A Milano è stata avviata una sperimentazione di questo tipo, e si è visto che è costata tantissimo. Per farvi fronte, è stato necessario utilizzare i fondi regionali provenienti dall’Ue.
(Paolo Nessi)