Benché la controriforma delle pensioni non sia stata inserita tra i quattro punti da realizzare in 100 giorni, il governo pare seriamene intenzionato a intervenire anche su questo fronte. Del resto, la riforma Fornero, secondo la stragrande maggioranza degli osservatori, è fonte di iniquità al punto tale da non poter essere assolutamente lasciata invariata. L’accesso al regime previdenziale, in particolare, è stato repentinamente e abbondantemente inasprito senza prevedere, come è buona norma in questi casi, una fase transitoria. L’ipotesi più in voga per porre rimedio al danno consiste nell’introduzione di un meccanismo di flessibilità che consenta di poter scegliere quando andare in pensione, entro una forbice compresa tra i 62 e i 70 anni, sulla base di disincentivi o incentivi a seconda che si vada prima o dopo. Arturo Maresca, professore di Diritto del Lavoro presso la Sapienza di Roma, non è tra quanti credono che la legge vada cambiata in tal senso. Gli abbiamo chiesto di spiegarci come affronterebbe un’eventuale revisione normativa.
Cosa ne pensa della possibilità di introdurre quella forma di flessibilità immaginata mentre la riforma era in fase di definizione, ma successivamente scartata?
Penso che la riforma, pur con tutti i suoi errori, affronti un problema che ci trascinavamo dietro da anni, ovvero quello della sostenibilità finanziaria del sistema. Capisco bene che 66 anni di età pensionabile, per molti, non siano tollerabili. Ma in tal senso, sarebbe opportuno fare una verifica approfondita per affrontare la questione per ciascuna tipologia lavorativa, estendendo magari le tutele previste per i lavori usuranti. Eviterei, invece, di ritoccare l’età di accesso in via generalizzata. Si rischierebbe di inficiare la ratio del provvedimento.
Non pensa che gli incentivi e i disincentivi, se calibrati opportunamente, renderebbe il sistema comunque sostenibile?
Forme di incentivi e i disincentivi, di fatto, sono già previste dalla riforma. Si ha diritto alla pensione a 66 anni, ma il lavoratore può scegliere di restare in attività fino a 70 anni e 3 mesi senza essere licenziato. La legge prevede, in questo caso, la tutela dell’articolo 18. Prima della riforma, invece, dopo i 65 anni l’azienda poteva licenziare. E più si resta in servizio, più la pensione viene incrementata per effetto dei coefficienti di trasformazione più alti. Allo stesso modo, casi in cui è possibile lasciare il lavoro con i requisiti di anzianità, si viene penalizzati da un coefficiente riduttivo.
Lei, quindi, cosa suggerisce?
Credo che sia meglio intervenire nella prospettiva della staffetta generazionale: un lavoratore senior accetta di lavorare part time in cambio dell’assunzione di un giovane; questo consentirebbe di trovare una modalità di uscita soft per i lavoratori anziani in grado di coniugarsi con le risposte al problema della disoccupazione giovanile, attualmente l’emergenza in assoluto primaria.
Eppure, la staffetta ha un costo?
Questo è indubbio. Al lavoratore anziano che si chiede di accettare un part time, bisogna pur sempre garantire la contribuzione fino al raggiungimento dell’età pensionabile. Altrimenti, non accetterà mai. Alcune aziende, come l’Enel, hanno realizzato misure del genere. Si sono rivelate piuttosto costose, ma, per lo meno, decisamente meno onerose del mantenimento in carico del lavoratore anziano. Sarà opportuno, quindi, trovare le risorse adeguate. Resta il fatto che, quantomeno, disponiamo già degli strumenti normativi per poter procedere. Addirittura, si tratta di ipotesi previste da leggi che, addirittura, risalgono al 1984, e contemplate, tra le altre cose, nella disciplina relativa ai contratti di solidarietà. Tuttavia, per le suddette questioni di mancanza di risorse, non hanno mai trovato applicazione effettiva.
(Paolo Nessi)