Il potere, tradizionalmente inteso, è la facoltà di influire sulle persone, sugli eventi e decisioni in quanto potens, ovvero con l’opportunità di incidere positivamente sugli altri, e si può articolare nel potere di premiare e di punire; nel potere di controllare le informazioni; nel potere di competenza, in base alla preparazione e alla professionalità; nel potere di referenza, in base al carisma riconosciuto; infine, nel potere legittimo derivante da valori interiorizzati che riconoscono al capo, che ha ricevuto tale investitura, il diritto di comandare e d’incidere sui collaboratori. Bisogna dunque verificare le modalità d’utilizzo del potere che può e deve essere usato a vantaggio dell’organizzazione e non esclusivamente per se stessi, rendendo più ampio ed efficace attraverso il coinvolgimento e la partecipazione degli altri e creando una dimensione positiva e di valore.
Sant’Agostino nel suo trattato “De Civitate Dei” (19, 14) ben rappresenta questa concezione del potere: “Nella casa del giusto, anche coloro che esercitano un comando non fanno in realtà altro che prestare servizio a coloro cui sembrano comandare; essi di fatto non comandano per cupidigia di dominio, ma per dovere di fare del bene agli uomini, non per orgoglio di primeggiare, ma per onore di provvedere”.
La leadership responsabile è infatti il risultato di un potere che viene dal basso, fatto più di autorevolezza che di autorità, e solo la presenza contemporanea di bassa autorità e alta autorevolezza, che coniughi carisma personale, competenze e ruolo aziendale, esprime l’esercizio della gestione efficace del consenso. Questa è la situazione, in termini aziendali, dell’individuo che conosce il contesto nel quale lavora, che ha fiducia nelle proprie competenze e nella consapevolezza degli effetti del proprio atteggiamento nei confronti dei collaboratori.
Per attuare questo tipo di leadership non bisogna mettersi i galloni da capo, ma assumersi la responsabilità di attivare un processo di guida, sviluppando un’azione di persuasione e di spinta al lavoro nelle persone, perché conseguano obiettivi comuni. In questo senso, essere leader significa possedere non tanto le conoscenze delle specifiche tecniche manageriali, quanto le capacità di renderle operative; il tutto supportato da esperienze formative ed educative che abbiano inciso positivamente sul sistema di convinzioni riguardante il proprio valore, l’autoefficacia personale e il rispetto verso i propri collaboratori.
Il risultato di questo processo è una persona competente ma anche aperta, propositiva e flessibile, con un forte orientamento a realizzare comportamenti efficaci; che sa farsi seguire nei percorsi intrapresi e sa utilizzare il talento delle persone. Nel contesto dell’ampio tema della leadership ci sono due visioni antitetiche rappresentate da un leader che, forte del proprio sistema di convinzioni, può esprimersi attraverso una gestione di tipo autoritario, con una supervisone rigida e un controllo continuo dei lavoratori; oppure da un leader partecipativo, che fonda la sua consapevolezza su relazioni positive di accettazione e scambio; che ritiene i suoi collaboratori naturalmente interessati al lavoro e all’assunzione di responsabilità; capaci infine di esercitare un autocontrollo per raggiungere gli obiettivi i cui si sentono coinvolti e per i quali sono disposti a un impegno serio e motivato.
Il leader che voglia rappresentare i valori della “responsabilità”, “sostenibilità” e “crescita”, non può che ispirarsi a questi principi: si gestiscono i comportamenti, non le persone; si fanno diagnosi e non si danno giudizi; e, soprattutto, non si deve essere né proiettivi (cioè usare noi stessi come metro di misura), né ideologici (cioè usare il criterio bene/male), ma adottare invece un approccio funzionale (coerente/incoerente) nel guidare le persone e giudicare i loro comportamenti e le loro azioni.
I leader, nei rapporti con i collaboratori, devono puntare sulla professionalità e sulla motivazione per essere in grado di indirizzare e dirigere, con la mente e con il cuore, le persone e la loro intelligenza emotiva, in modo da generare, nell’ambiente nel quale esercitano la propria autorevolezza, un clima di benessere per sé e gli altri.
In una tale ottica bisogna contemperare l’orientamento alle persone con l’orientamento ai risultati evitando atteggiamenti paternalistici o autoritari/direttivi. Solo un atteggiamento di tipo partecipativo, con un alto orientamento ai collaboratori e, contemporaneamente, ai risultati, consente decisioni condivise e il coinvolgimento di tutti nel realizzare gli obiettivi aziendali.
La ricerca della consapevolezza del proprio atteggiamento di leadership dovrebbe realizzarsi attraverso l’ascolto dei segnali di varia natura, anche impliciti, provenienti dai propri collaboratori, che sono utili momenti di verifica dei propri comportamenti. Senza applicare metodi di valutazione formali, è necessario entrare poi in relazione con loro e osservare la realtà organizzativa dal loro punto di vista, proprio perché il principio primo della consapevolezza è la conoscenza; solo così si può evitare di sbagliare.
Si potranno, allora, contemperare i propri atteggiamenti con quelli delle persone con le quali si lavora, arrivando a esercitare una leadership più sensibile e compatibile con il sistema di riferimento. Il leader deve essere soprattutto una “persona responsabile”, che si rispetta e rispetta gli altri, che sa contemperare le sue esigenze, quelle aziendali e quelle dei suoi collaboratori: un po’ comandante, un po’ “coach”, un po’ “counselor”, nel senso di consigliere sempre pronto ad aiutare le persone bisognose di comprensione, un po’ “mentore”, nel senso di essere il punto di riferimento nelle situazioni importanti come l’educatore di Telemaco, il figlio di Ulisse, e, infine, un po’ “visionario”, nel senso di avere una chiara “vision” futura dell’organizzazione verso la quale condurre la sua squadra con determinazione e umanità.