La nascita di un nuovo governo di solito viene seguita con un’attenzione particolare, mista di diffidenza e di speranza. Al di là della sua composizione e dei suoi protagonisti. Perchè, oramai lo sappiamo bene, non bastano le promesse, né le buone intenzioni. Contano i fatti, le scelte concrete, le decisioni che verranno prodotte, le innovazioni che risulteranno. Unica panacea nei confronti del generale disorientamento, se non di vero e proprio scetticismo. Questo vale soprattutto oggi, viste le difficoltà, i limiti di investimento, le aspettative. Saprà, in poche parole, il governo presieduto da Enrico Letta corrispondere alle tante attese?



Detto in altri termini, al di là delle opzioni politiche e delle scelte dei vari partiti, oltre le facili promesse della campagna elettorale: sarà la volta buona per quelle “riforme strutturali” capaci di guidare il cambiamento in ordine alle nuove esigenze, soprattutto, delle giovani generazioni? Capaci di alimentare una speranza di futuro, in termini di reali opportunità? Sapendo che la formazione è e sarà sempre il cuore di qualsiasi scelta?



Enrico Letta, nel suo discorso alla Camera, ha parlato di “coraggio della verità”. L’aveva fatto anche Mario Monti al momento del suo insediamento, e poi abbiamo visto com’è andata a finire. Che cosa implica questo “coraggio”? Significa partire dai risultati, confrontarsi sulle reali opzioni, non sulle sole intenzioni, oltre le vecchie abitudini, quelle che hanno fatto esplodere, in questi ultimi decenni, una retorica dei diritti senza responsabilità, la stessa che ha prodotto quel grande fardello, il debito pubblico, che è la vera eredità che lasciamo ai nostri figli e nipoti.



Oggi quel “coraggio della verità” deve essere visto come il primo investimento di un Paese che non si rassegna alla decadenza. Senza perdersi nelle chiacchiere (se ne sentono già troppe nelle trasmissioni tv), sono la scuola e le leggi sul lavoro il vero terreno di quel cambiamento, come esercizio delle pari opportunità, quindi di mobilità sociale, di condivisione dei bisogni di conoscenza e di partecipazione sociale. Se vogliamo, queste esigenze sono già scritte in Costituzione. Ma la loro interpretazione, negli anni, ne ha fossilizzato gli effetti, figli di una stagione (il ’68) che ha imposto letture sociali fatte di cooptazione, rendite di posizione, di negazione del talento e del merito. Quante risorse pubbliche sprecate, negli ultimi decenni, per difendere il finto egualitarismo, la retorica, appunto, del “diritto di avere diritti”. Senza una corrispettiva “etica della responsabilità”.

Nei giorni scorsi Enrico Letta ha parlato di “più lavoro per i giovani”, come uno dei punti centrali dei primi 100 giorni del suo governo. Il che potrebbe significare detassare i contratti, oppure come rendere concreta una sorta di “staffetta generazionale”. Palliativi, speranze concrete? Non bastano. Pensiamo qui a tutto il mondo del lavoro, in ordine soprattutto a una domanda: se è vero che negli ultimi anni il nostro Paese si è imposto come seconda realtà manufatturiera europea, quali possono essere le scelte “strutturali” in grado di difendere questo preziosissimo tessuto produttivo e occupazionale? Parliamo sempre più, per questi aspetti, di innovazione, di start up, di made in Italy, di nuove sinergie, di forme di detassazione, ecc. Si tratta di vedere, sempre nei primi 100 giorni, che cosa riuscirà a mettere in campo il governo Letta.

La Francia e la Germania, sulle nuove politiche attive per i giovani, qualcosa lo stanno immaginando. Parlo qui dell’idea di utilizzare 6 miliardi di euro di fondi europei, sui 60 disponibili sino al 2020, sfruttando la leva della Banca europea degli investimenti, con questa finalità: creare uno stretto legame tra le aziende e i centri di formazione, favorendo l’assunzione di giovani disoccupati. Il progetto richiama la stagione roosveltiana: “New deal per l’Europa”. Sarà presentata a Parigi il prossimo 28 maggio dai ministri del lavoro francese e tedesco. Perchè Letta non si affretta a condividere lo stesso sentiero? La Germania, ad esempio, pur avendo una disoccupazione giovanile di appena il 7%, di contro al 30% francese (e al 36% italiano, 60% greco, 56% spagnolo, con una media europea del 24%), comunque dimostra grande attenzione e lucidità di iniziativa. In sintesi, il progetto franco-tedesco prevede l’utilizzo dei fondi Ue attraverso la Bei per crediti a basso tasso d’interesse alle aziende che assumono giovani, in particolare facendo leva sull’apprendistato, da sempre un asso portante del sistema tedesco.

Si è parlato, nei conversari italiani, di modificare la Riforma Fornero, che oggi sembra avere smarrito i propri padri putativi. L’obiettivo è chiaro: rendere concreta quella flessibilità da tutti invocata come ragione di diritto di una nuova cultura delle opportunità. Il che dovrebbe tradursi in una riflessione mai fatta nella società italiana, sino in fondo: cosa vuol dire oggi “diritto al lavoro”. Traducendo, oltre reali pari opportunità in ragione del merito: elaborare proposte per migliorare la produttività, riducendo il costo del lavoro e aumentare le retribuzioni; come “stabilizzare”, in seconda battuta, i giovani che si affacciano a una professione; come favorire poi il ruolo delle donne, tenendo conto della difficoltà di far coesistere il lavoro con la famiglia; equiparare infine, finalmente, lavoro pubblico e lavoro privato; cancellare il “valore legale dei titoli di studio”, primo passo perché siano le effettive competenze, e non i pezzi di carta, a dare la misura di un percorso formativo. E così via.

Difficile, dunque, limitarsi, quasi in termini romantici, a evocare una sorta di “patto generazionale”, se sono i padri quelli che stanno nel concreto penalizzando i figli. Si tratta cioè di indicare le scelte che concretamente possono rendere “aperto” un mondo, oggi invece chiuso a riccio dalle mille caste che occupano militarmente la società italiana. Se, ce lo diciamo tutti, sono finiti i tempi degli scontri ideologici, cioè della pretesa di dire come stanno le cose prima ancora di capire come le cose effettivamente stanno, queste sono le questioni che devono entrare nella spinta riformatrice dei primi 100 giorni. In poche parole, partire dalla realtà, dalla cruda realtà, per tentare poi di migliorare e cambiare in progress le cose che non vanno.

Per dare dunque una concreta speranza ai giovani, e a tutti coloro che si trovano in difficoltà, la politica dovrebbe smetterla con la fumosità degli slogan e cercare, invece, di aprire un confronto serio a partire dai dati reali, dalle troppe statistiche che ogni giorno ci inseguono. Che ci dicono, semplicemente, ciò che già sappiamo. Sano riformismo vuol dire mettere a nudo, da un lato, i troppi interessi di parte, corporativi, e dall’altro non fidarsi troppo delle infinite mediazioni, quelle che annacquano, lo sappiamo, tutte le buone intenzioni. Ma la politica, da sola, non basta. Anche tutte le rappresentanze sociali, culturali, hanno bisogno di alzare la testa, hanno bisogno di capire cosa voglia dire oggi “bene comune”. I sindacati tutti, in questi termini, devono radicalmente ripensare il proprio ruolo e le proprie proposte in ragione della nuova stagione che stiamo vivendo. Ma vedo ancora troppe resistenze.

A noi tutti, a livello individuale e sociale, spetta un compito: porre le domande giuste, quelle necessarie per capire come uscire da una crisi che ci sta attanagliando tutti. Cercare le domande giuste per trovare le risposte giuste. Quelle che non si limitano a mascherare gli interessi di parte. Oltre destra e sinistra. Oltre le solite etichette. In un contesto non di crisi passeggera, ma epocale, per via di una globalizzazione che solo ora stiamo iniziando a metabolizzare, di cui il successo di Grillo è solo un assaggio temporaneo, abbiamo capito, giocoforza, che si sta ridisegnando, volenti o nolenti, il parterre della nostra vita sociale, economica, istituzionale. Parlo di un periodo storico nato con la generazione del ’68, quella che ha finito per privilegiare i padri sui figli, gli anziani sui giovani, le tante caste e i troppi conservatorismi a danno del merito, del talento, delle reali pari opportunità. Rivoluzionari sul passato, conservatori sul presente-futuro.

Li conosciamo tutti i dati sulla disoccupazione giovanile (36,6%), come gli oltre 2 milioni di Neet. Eppure, i padri, nei confronti dei figli, hanno preferito costruire, nel mondo del lavoro, nella politica, nella scuola e nell’università, dei veri muri di gomma, cioè vere forme di sbarramento e autoprotezione. L’età media dei gruppi dirigenti oggi tocca i 64 anni. Perché, ad esempio, non matura un sorta di “solidarietà generazionale” tra i nonni e i padri che oggi sono in pensione con regole e norme altamente favorevoli (chi è andato in pensione dopo 14 anni, dopo 19 anni, dopo 25 anni, dopo 30 anni, dopo 35 anni, dopo 40 anni, mentre oggi i 40 non bastano più, e con un calcolo, per i prossimi anni, solo contributivo): mentre i figli e nipoti chissà se e quando andranno in pensione, e con quale assegno mensile? Guai a parlare di queste ingiustizie…

Perché ciò che è stato possibile nel ’68, cioè una rivoluzione generazionale, ora non è possibile? Perché, numericamente, i giovani di oggi sono minoranza rispetto ai giovani di allora. Non solo. Ma quei giovani di allora sono oggi gli stessi che stanno difendendo a denti stretti le proprie posizioni, a scapito dei più giovani. Cosa stiamo, ad esempio, notando nel mondo del lavoro? L’assenza di massa di un’intera generazione. Il che sta impoverendo in modo drastico la spinta all’innovazione, con la conseguenza che le aziende, i tanti mondi produttivi non si rinnovano, non sfruttano, cioè, la spinta innovativa e competitiva dei più giovani.

Per quale motivo, ad esempio, ogni giorno perdiamo posizioni in tutti i settori più innovativi dell’imprenditoria, dell’innovazione culturale della scuola e dell’università, nella Pubblica amministrazione? Molto semplice: chi oggi ha le redini del gioco non è in grado, tra le altre cose, di capire le nuove tecnologie come saprebbero fare i nativi digitali. Potremmo chiamarlo “furto di futuro”. Ma la cosa che stupisce è che i giovani sembrano non avere piú la forza di protestare, di contestare lo status quo. A Venezia come a Milano, a Roma come a Palermo. In altre parti d’Europa vi sono state manifestazioni di “indignati”, ma legate ancora a forme di rivendicazioni “assistenzialistiche”, non di liberazione dai troppi vincoli.

I giovani oggi, piuttosto, sembrano rassegnati. A parte il voto di protesta in massa verso Grillo, sanno che non sono una forza antagonista. Piuttosto vivono nella società, come in famiglia, come il gatto di casa: a proprio agio, ma senza voce in capitolo. I giovani di oggi, dunque, non hanno gli strumenti, né la forza per fare una nuova rivoluzione, tanto da rischiare di appiattirsi sulle idee dei “vecchi”. Fossimo un Paese serio, realmente solidale, il problema giovani sarebbe la priorità di tutti. Invece…