All’epoca, la definizione di una nuova normativa previdenziale era considerata un pegno necessario da pagare all’Europa e ai mercati finanziari per evitare la catastrofe. La politica agiva sotto il timore dello spread. Tuttavia, anche mentre la riforma delle pensioni veniva scritta, in molti speravano che il governo successivo si facesse carico di modificarla. Sospesa temporaneamente l’eccessiva preoccupazione per quello che pensano di noi gli stranieri, il governo pare effettivamente intenzionato a porre rimedio ai danni provocati dalla legge Fornero. Il premier Letta e il ministro del Lavoro Giovannini stanno studiando, anzitutto, un metodo per consentire di scegliere quando andare in pensione, entro una forbice compresa tra i 62 e i 70 anni: chi va prima, sarà leggermente penalizzato, chi va dopo, otterrà degli incentivi. Inoltre, si sta verificando la fattibilità della cosiddetta staffetta generazionale: il lavoratore anziano accetta un part time e l’azienda assume un lavoratore giovane. Sullo sfondo, resta sempre l’emergenza sociale degli esodati. Abbiamo fatto il punto sulla situazione con Alberto Brambilla, esperto di previdenza ed ex sottosegretario al Welfare dal 2001 al 2005.
Cosa pensa delle opzioni di cui si parla in questi giorni?
Anzitutto, va sanata la questione degli esodati. Capisco che ci spossano essere problemi di natura economica, ma se lo Stato ha fatto delle regole e il cittadino si è comportato in base a esse non può essere proprio lo Stato a disattenderle. Lo stesso si dica per i pagamenti delle pubbliche amministrazione alle imprese. Si tratta di una questione, anzitutto, morale. Se i Comuni non hanno soldi per pagare le aziende, che facciano meno rotonde o dossi per rallentare il traffico. E che si taglino tutti quelli con meno di 500 abitanti. Non è più accettabile che più di mille amministrazioni abbiano tali dimensioni, su un totale di circa 8.800. D’altro canto, la logica suggerisce che ostinarsi a non pagare le imprese si ripercuote sulle stesse pensioni.
In che senso?
Se l’impresa chiude perché non ottiene ciò che gli spetta, lo Stato gode di un gettito minore e per pagare le prestazioni previdenziali non può fare altro che indebitarsi ulteriormente.
Cos’altro non va nella riforma?
Non esiste un paese tra i 27 dell’Ue in cui si chiedano, per andare in pensione, 45 anni di anzianità contributiva. Un conto, infatti, è indicizzare le pensioni alla speranza di vita; altra, è indicizzare all’aspettativa di vita persino l’anzianità contributiva.
La flessibilità potrebbe rimediare alla situazione e, contestualmente, fare in modo che il sistema rimanga finanziariamente sostenibile?
La flessibilità, di per sé, è un valore. Quando scrissi la riforma Dini assieme a Tiziano Treu e Gianni Geroldi, e allo stesso Dini, decidemmo di introdurla, consentendo l’uscita dal rapporto di lavoro tra i 57 e i 65 anni. Contestualmente, introducemmo i coefficienti di trasformazione. La stessa cosa si può fare oggi, con una forbice compresa tra i 62 ei 72 anni. A patto, che si abbiano almeno 35 anni di contributi e che la pensione risulti almeno una volta e mezza l’assegno sociale.
Come valuta l’ipotesi della staffetta generazionale?
Tecnicamente, è estremamente complicata, ma si può realizzare: lo stipendio è legato all’effettiva prestazione; l’onere dei contributi, invece, deve essere ripartito tra lo Stato, l’azienda e il lavoratore. Se al posto di queste persone l’azienda prende un giovane che guadagna, mediamente il 25-30% in meno, i conti possono tornare. In tal senso, un progetto molto valido era stato presentato a suo tempo da Francesco Micheli per conto di Banca Intesa. Prevedeva un approdo graduale alla pensione: a chi mancavano 5 anni dall’ottenimento dell’assegno si consentiva, il primo anno, di lavorare un giorno in meno, quello successivo due giorni in meno e così via.
(Paolo Nessi)