Ci sono buone probabilità che i lavoratori di oggi, giovani e meno giovani, non siano obbligati ad andare in pensione non prima dei 66 anni. Addirittura, se la riforma Fornero dovesse restare invariata, buona parte della forza lavoro rischierebbe di accedere al regime previdenziale ben oltre, dato che dal 2018 in avanti la soglia minima sarà indicizzata periodicamente all’aumento della vita media. Ma il governo pare intenzionato a introdurre un meccanismo di flessibilità che consenta l’uscita dal lavoro entro una forbice compresa tra i 62 e i 70 anni, in base a penalizzazioni e incentivi. Contestualmente, per favorire la ridistribuzione dell’occupazione e forme di prepensionamento, si sta verificando la fattibilità della staffetta generazionale: l’azienda assume un giovane, mentre il lavoratore anziano accetta un part-time. Abbiamo parlato di tutto questo con Giorgio Molteni, avvocato esperto di diritto del Lavoro e partner dello studio Trifirò & Partners.
Cosa ne pensa dell’ipotesi di introdurre la flessibilità?
Indubbiamente, è positivo il fatto che un intervento di questo genere consentirebbe di risolvere il problema degli esodati. La flessibilità consentirebbe loro di agganciare la pensione (anche se questo potrebbe determinare una sperequazione di trattamento tra quelli salvaguardati finora con l’applicazione delle deroghe, e che hanno avuto la possibilità di accedere alla pensione senza penalizzazioni). D’altro canto, occorre verificare le ricadute generali. La flessibilità con penalizzazione equivale pur sempre a una riduzione dell’età pensionabile. In una situazione di crisi occupazionale come quella attuale può rappresentare un paracadute previdenziale per i lavoratori espulsi dal mercato. Tuttavia, dato che ci si può ragionevolmente attendere che il numero delle pensioni, anche se ridotte, aumenti, in prospettiva si determineranno dei costi per lo Stato di cui va valutata la copertura.
Secondo lei, un sistema di incentivi e disincentivi opportunamente calibrato potrebbe garantire la sostenibilità finanziaria?
E’ verosimile. Recentemente, del resto, il presidente dell’Inps, pronunciandosi sull’ipotesi di introduzione di forme di flessibilità – da stabilirsi nelle loro dimensioni ed entità (occorre, infatti, definire la soglia minima di età pensionabile e i livelli di penalizzazione) – ha detto che si tratterebbe di un costo sostenibile. Ora, siccome l’Inps è l’ente deputato all’erogazione delle pensioni, le affermazioni del suo presidente sono tendenzialmente credibili.
Crede che la staffetta generazionale sia praticabile?
Personalmente ho delle perplessità. Si dovrà chiarire, anzitutto, di cosa si parla. La riduzione di orario per i lavoratori anziani a fronte dell’assunzione di un giovane pone diversi problemi. Non è detto che si possano effettivamente creare delle condizioni di convenienza sia per il lavoratore che per l’azienda.
Ci spieghi meglio.
Il lavoratore, essendo in regime di calcolo pensionistico contributivo, meno lavora e maggiormente vedrà ridotto il suo assegno previdenziale. E’ necessario, quindi, che lo Stato, ovvero la collettività, si faccia carico della parte contributiva mancante. Non è chiaro, inoltre, quale dovrebbe essere il ruolo dell’azienda. O la sua disponibilità ad assumere viene suscitata attraverso incentivi di natura economica – il che si tradurrebbe ancora una volta in costi per la collettività – o difficilmente, in questa fase di recessione, sarà in grado di potenziare l’organico. Infine, rispetto a certe figure professionali, l’interscambiabilità tra lavoratore giovane e anziano è piuttosto opinabile.
(Paolo Nessi)