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Scelte forti e tempestive: ecco cosa ci attendiamo dal nuovo Governo, finalmente insediatosi, per far ripartire lo sviluppo, e dunque il lavoro, nel nostro Paese. In un periodo di piena recessione non esiste infatti alcuna possibilità di indugiare, né, tantomeno, di percorrere strade secondarie: occorre, invece, essere quanto mai selettivi nel definire le priorità e determinati nell’utilizzo delle poche risorse disponibili, per attuare politiche di espansione economica davvero vincenti, nel breve come nel medio e lungo termine.



Da dove partire, quindi, e come agire? Riconoscendo, innanzitutto, un criterio, sulla base del quale giudicare ogni successiva decisione specifica. E cioè, prima è più di ogni altra cosa, incentivare ciò che genera valore e, proprio per questo, buona occupazione. Da qui, da questa evidente necessità, oggi dai più nuovamente percepita come decisiva, si potrà poi procedere nello stabilire le priorità delle nostre azioni. Certo, tutto questo significa – ne siamo pienamente consapevoli – “tagliare corto” con il passato, eliminando, una volta per tutte, quelle indigeribili e infauste ricette per la crescita i cui ingredienti principali sono stati la creazione di posti di lavoro improduttivi e la generazione di consumi ottenuti a debito. L’esito di questa “tradizione” è, ahimè, sotto gli occhi di tutti.



Tre sono, al contrario, le priorità che vorremmo venissero chiaramente perseguite, alla luce del criterio individuato. La priorità numero uno è la riduzione del costo del lavoro. Abbattere il peso fiscale sul lavoro è infatti decisivo – anche se si dovesse spostarne temporaneamente altrove il peso economico – proprio perché il lavoro si pone come punto di sintesi tra persona e azienda: un vero crocevia, un ganglio vitale, dal quale dipendono caduta dei consumi, produttività e competitività, benessere delle persone, sviluppo delle imprese, tenuta sociale.

Ridurre, ad esempio, il cuneo fiscale, o agire sull’Irap, non significa dunque solo usare una leva economica, ma piuttosto incentivare la generazione di nuovo valore per tutti, attraverso il lavoro delle persone. E affermare che si tratta di una priorità significa per esempio, oggi, privilegiare con molta determinazione interventi di questo tipo alla tanto osannata eliminazione dell’Imu: provvedimento, questo, che rischia invece di essere preferito per ragioni populistiche e non di contenuto.



La seconda, fondamentale, priorità è costituita dalle politiche attive. Non solo, in effetti, esse permettono di affrontare la grave e immediata criticità di dare un reddito a chi non lo ha attraverso una facilitazione a ritrovare un posto di lavoro, ma, fin da subito, sono in grado di supportare la costruzione di una nuova impiegabilità – e dunque di nuovo valore – che rappresenterà un patrimonio decisivo anche per il futuro. È infatti con attività come il supporto alla ricollocazione, all’orientamento professionale e alla buona formazione, gestite da operatori privati e pubblici capillarmente presenti sul territorio, che sarà sempre più possibile costruire un patrimonio di persone che lavorano, soprattutto giovani, in grado di generare nuovo valore attraverso la loro vita professionale e i successivi impieghi lavorativi. Anche l’apprendistato, che è da incentivare, rientra in tale categoria di iniziative: esso non ha infatti tanto lo scopo di consentire una riduzione del costo del lavoro, ma, soprattutto, quello di incentivare il reciproco investimento tra giovani e azienda, volto alla costruzione delle necessarie competenze professionali per il presente e per il futuro.

La terza priorità è quella di perseguire, organicamente, un migliore funzionamento del mercato del lavoro, basato, appunto, sulla capacità di mettere tutti i soggetti implicati nelle condizioni di generare valore attraverso le proprie specifiche attività. Da questo punto di vista, considerato che si parla oggi sempre più frequentemente di correggere la Riforma Fornero e di rimuovere alcuni vincoli ai contratti di lavoro, è assolutamente necessario evitare di compiere passi indietro, individuando molto attentamente su quali vincoli agire.

Se infatti la strada che si intende intraprendere è quella di rimuovere ulteriormente i vincoli alla flessibilità in uscita del contratto a tempo indeterminato – proprio per ridare centralità al medesimo – e se si tratta di rendere più facile l’utilizzo di strumenti come la somministrazione, cha sa coniugare la flessibilità per l’azienda con la sicurezza dei lavoratori magari abolendo le causali e facendo transitare su di essa tutte le esigenze di lavoro inferiori ai tre mesi, allora saremmo assolutamente d’accordo, e l’Unione europea con noi. Se, al contrario, le urgenze della crisi spingessero alla rimozione di quei vincoli che hanno, giustamente, limitato l’uso improprio di forme di flessibilità quali il lavoro a progetto o le partite iva, che lasciano i lavoratori senza alcuna tutela, o se – ancora -rimuovere i vincoli significasse permettere ai contratti a termine di essere prorogati all’infinito, lasciando così le persone in balìa della precarietà, senza poter tra l’altro giovarsi di alcuna assistenza esterna come invece avviene con la somministrazione attraverso le Agenzie, in questo caso noi saremmo in totale disaccordo. Utilizzando in tal modo, quale giustificazione di queste scelte, il criterio dell’urgenza, si correrebbe il serio rischio di ridurre sempre più persone in condizione di grave precarietà e di orientare le aziende a comportamenti più opportunistici che di reale responsabilizzazione.

Generare valore per tutti attraverso un’immediata riduzione del costo del lavoro, un efficace sviluppo delle politiche attive ed un più organico funzionamento del mercato del lavoro, che favorisca la flessibilità per le aziende ma senza indebolire la sicurezza per le persone: ecco la strada che occorre davvero al Paese, alle aziende, alla nostra gente. Contiamo di poterla percorrere presto insieme.

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