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Nel pacchetto lavoro a cui sta lavorando il ministro del Lavoro Enrico Giovannini, una parte decisiva la giocherà il riassetto del sistema per il collocamento. Il naufragio dei centri pubblici per l’impiego è totale e irreversibile: secondo l’indagine dell’Isfol, appena 3 disoccupati su 100 che vi transitano riescono a trovare un nuovo posto. Sulla riforma del collocamento abbiamo chiesto di fare il punto a Stefano Colli Lanzi, vicepresidente di Assolavoro, l’associazione delle agenzie private, con delega alle politiche attive.



Entro la fine dell’anno saranno un milione e mezzo  i lavoratori che beneficeranno dell’Assicurazione per l’impiego, destinata a sostituire progressivamente la cassa integrazione. E hanno il diritto, vincolante per lo Stato, di ricevere una serie  di supporti: entro tre mesi  dall’ingresso nella disoccupazione   un servizio di orientamento individuale, entro  6 mesi l’orientamento collettivo, entro 12 mesi una offerta formativa o la ricollocazione.  Come può realizzarsi tutto questo?



È importante aver definito nella nuova legge l’orientamento in questa direzione. Purtroppo il tavolo destinato a realizzare questa parte di riforma non si è ancora aperto. Certo, il tempo passa e ora è diventato urgente. Le politiche attive per ora sono in capo alle aziende che volontariamente si fanno carico delle persone che sono costrette a tagliare oppure ad alcune Regioni che hanno fatto partire progetti sperimentali. Senza dubbio esperienze positive. Manca però il livello nazionale. Fatti salvi gli spazi per le autonomie locali e per le imprese, serve  una governance centrale delle regole di fondo. Ecco perché è importante che il ministro del Lavoro apra quanto prima questo tavolo di confronto.



Attraverso i centri pubblici per l’impiego trovano un lavoro appena 3 lavoratori su 100. Chiaramente il sistema non funziona e va cambiato. Le riforma Fornero prevede proprio il riordino dei servizi per l’impiego. In che modo va cambiato il sistema?

I centri per l’impiego, integrati con la rete della agenzie private possono  soddisfare il grande  fabbisogno di supporto ai disoccupati.

Ma in concreto come si possono integrare le due dimensioni, quella pubblica e quella privata?

I centri pubblici possono essere impegnati nelle prime fasi di presa di contatto, censimento e apertura della relazione con le persone che in questo modo avrebbero  chiaro che stanno entrando in un sistema che si metterà a loro disposizione per favorire la  ricollocazione di ogni disoccupato. Dall’altra parte alle agenzie private più specialistiche si possono affidare le attività di orientamento e ricollocazione in senso stretto. I risultati delle agenzie private sulla ricollocazione sono  ben superiori al 3 per cento.

In che ordine di grandezza siamo?

Dall’80 al 90 per cento. D’altra parte se il nuovo sistema dovesse prescindere dalla parte pubblica perderebbe una componente fondamentale. È importante che le persone abbiamo come riferimento un’organizzazione pubblica.

Ma per integrare le due componenti serve una governance molto forte. Sul modello dell’agenzia nazionale francese…

Può essere una soluzione. Un’ente sovraordinato, portatore delle logiche nazionali declinabili anche localmente a livello di Regioni e Province, ma che rappresenti un’infrastruttura centrale di coordinamento, con cui le agenzie private si possano correlare. Questo, idealmente,  è il modello più sensato.

 

Per  le crisi aziendali  di grandi dimensioni la nuova legge prevede  l’assistenza al ricollocamento per i lavoratori espulsi, attraverso l’outplacement. Che però ha dei costi. Chi li copre? Lo Stato? Le Regioni? Ha senso chiedere che partecipi alla copertura anche il disoccupato?

 Sono convinto che i primi a dover sostenere questo costo siano le aziende, chiamate in prima battuta a farsi carico dei servizi di ricollocazione per le persone che tagliano. Il datore di lavoro assolverebbe a un compito fondamentale: fare di tutto per aiutare la persona espulsa a trovare un altro lavoro. Ove l’impresa non ce la facesse, toccherebbe alle Regioni intervenire.

 

Non si è realizzato il previsto accorpamento delle Province con lo spostamento in capo alla Regioni delle funzioni di coordinamento dei servizi per l’impiego. Questo cosa comporterà? C’è il rischio che sopravviva l’attuale giungla anche nei sistemi per l’accreditamento degli operatori privati?

 In questo momento  il sistema di accreditamento è in mano alle Regioni. Sono le Regioni che non si sono dotate, ad esclusione di quelle del nord Italia,  di sistemi di accreditamento. Ma è importante definire un sistema di regolazione nazionale che definisca le logiche di fondo. Un po’ come è accaduto con l’apprendistato.

 

Secondo lei ha senso rafforzare  il vincolo per il lavoratore di partecipare a corsi di aggiornamento e riqualificazione per accedere al sussidio Aspi e ai nuovi servizi per l’impiego?

Legare il godimento del sussidio alla formazione tout court non basta. Dobbiamo stare attenti a non cadere nell’errore che si è perpetuato per anni. Quello cioè di generare un bisogno per poterlo soddisfare con iniziative di formazione generica. L’Aspi deve combinarsi con le politiche attive. Semmai i sussidi devono scattare solo a risultato raggiunto. Quando cioè il disoccupato è stato riportato al lavoro. L’agenzia deve essere compensata non perché investe del tempo ma quando ottiene un risultato. Semmai il sussidio Anspi si può interrompere di fronte alla palese rinuncia da parte del disoccupato a un’opportunità di lavoro. Questo sì. Il lavoratore deve essere corresponsabilizzato, al pari dei sindacati che devono impegnarsi nei fatti, oltre che a parole, a spingere il lavoratore a ricollocarsi, anziché trattenerlo nell’area del sussidio pubblico. Nel rispetto dei ruoli di ciascuno, forse sarebbero utili dei sistemi incentivanti anche per il sindacato per spingerlo in questa direzione.

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