Quello che sembrava impensabile fino a poche settimane fa sta diventando un’eventualità concreta. La riforma Fornero può essere modificata, eccome. In meglio, ovviamente. L’idea secondo cui rivederne gli ingranaggi avrebbe gettato improvvisamente l’Italia nel discreto internazionale (la riforma, infatti, fu uno dei punti qualificanti del programma di Monti e rappresentò uno dei sui impegni principali nei confronti dell’Europa) è stata accantonata. Letta sembra intenzionato a ridurne l’impatto terrificante che, se restasse invariata, produrrebbe sulla vita di milioni di persone. In sostanza, il governo sta studiando il modo per introdurre un criterio di flessibilità che consenta di andare in pensione entro una certa forbice (si ipotizza tra i 62 e i 70 anni), subendo dei disincentivi se si decide di andare prima, e ricevendo degli incentivi andando dopo. Guido Canavesi, docente di diritto del Lavoro presso l’Università degli studi di Macerata, ci spiega perché è auspicabile che la riforma venga ritoccata.



Di per sé, è preferibile un sistema flessibile?

Certo. Una disciplina dell’età anagrafica per l’uscita dal lavoro connotata dalla flessibilità era già contemplata nella prima formulazione della riforma Dini del ’95. Essa prevedeva che il lavoratore potesse andare in pensione tra i 57 ai 65 anni. Poi, la riforma Maroni, ha introdotto una modifica piuttosto controversa che ha rimosso la flessibilità in uscita, introducendo quindi, nell’ambito del sistema contributivo, la logica tipica di quello retributivo. Tuttavia, la flessibilità, con il sistema contributivo attualmente in vigore, si coniuga perfettamente. Si riceve in misura direttamente proporzionale rispetto a quanto si è versato.



Quindi?

E’ del tutto  legittimo ragionare su un sistema che introduca la flessibilità. Anzi, siccome tra contribuiti e prestazioni si determinerebbe un sostanziale equilibrio, non si capisce perché chi va in pensione prima dovrebbe subire un disincentivo. I disincentivi, infatti, sono un fattore tipico dei sistemi retributivi, dove si riceve molto di più di quanto si è versato nel corso della propria vita lavorativa.

Crede che un meccanismo del genere sarebbe sostenibile per le casse dello Stato?

A dire il vero, mi domando se sia sostenibile un’età di pensionamento particolarmente avanzata. Indubbiamente, la vita media delle persone si è notevolmente allungata negli ultimi anni. In base a questo, la riforma Fornero ha spinto piuttosto in avanti il limite minimo per accedere al regime pensionistico. Senza, tuttavia, considerare che l’usura subita da un lavoratore anziano nello svolgere la propria attività non è diminuita. Il rischio, quindi, è che il risparmio prodotto nell’ambito del sistema previdenziale possa essere inferiore alla spesa necessaria per i servizi sanitari necessari per assistere queste persone. Dubito, altresì, che siano state fatte delle verifiche effettive sul rapporto tra costi e benefici considerando il sistema nel suo insieme.



 

L’altro capitolo fondamentale indicato dal governo come priorità è quello degli esodati.

I risparmi previdenziali della riforma delle pensioni si produrranno solamente nel corso degli anni, mentre costoro vanno salvaguardati adesso. Siamo di fronte, quindi, a un evidente problema di risorse. Sta di fatto che si tratta di una fondamentale questione di diritto che, in un modo o nell’altro va sanata. Si è fatta una riforma in cui si sono cambiate le regole del gioco dall’oggi al domani e molto cittadini che avevano una certa prospettiva di vita si sono trovate senza pensione e senza lavoro.

 

(Paolo Nessi)

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