Normalmente, le controriforme, in Italia, rischiano di produrre più danni che benefici. Questa volta, tuttavia, è auspicabile che il governo Letta tenga fede agli impegni e proceda con delle sostanziali modifiche della nuova disciplina pensionistica targata Fornero. Si ricorderà, infatti, che averla realizzata in fretta e furia determinò profonde iniquità e ingiustizie sociali. Il presidente del Consiglio sembra intenzionato a sanare le principali: la vicenda degli esodati e la rigidità assoluta dei requisiti per l’accesso al regime pensionistico che, a regime, scatterà indiscriminatamente attorno ai 70 anni. Stefano Giubboni, professore docente di Diritto del lavoro presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Perugia ci spiega in che termini l’esecutivo dovrebbe procedere.
Lei come interpreta le intenzioni del premier?
Credo che Letta, nel suo discorso programmatico, avesse in mente, anzitutto, la vicenda degli esodati, considerandola una delle prioritarie emergenze sociali del Paese. In questo ambito, va recuperata una gradualità capace di colmare i vuoti di tutela che ancora persistono rispetto a quei soggetti che hanno visto distrutta da un giorno all’altro la propria aspettativa di accesso alla pensione.
Come valuta l’introduzione di un meccanismo di flessibilità nella disciplina pensionistica generale?
E’ indubbiamente immaginabile un recupero di flessibilità nella gestione dell’età pensionabile. Gli spazi di gradualità, tuttavia, vanno ripristinati mantenendo in equilibrio il sistema, preservando, cioè, la sostenibilità finanziaria di lungo periodo. Del resto, è quanto era previsto dalla riforma Dini del ‘95.
Ovvero?
La riforma contemplava un accesso flessibile alla pensione, con assoluta parità di trattamento tra uomini e donne, a partire dai 57 anni e fino ai 65. Si trattava di una razionalizzazione del sistema che introduceva coefficienti di trasformazione in grado di aumentare la rendita man mano che ci si avvicinava ai 62 anni. Ovviamente, oggi le soglie andrebbero spostate verso l’alto. Ma la logica di fondo di quella normativa, le 335 del ’95, può essere preservata. E’ sufficiente rivisitarla alla luce delle nuove aspettative di vita. D’altro canto, la riforma Dini è stata considerata talmente efficiente che alcuni Paesi del nord Europa ce l’hanno esplicitamente copiata. Con la differenza che loro sono riusciti a mandarla a regime in pochi mesi. Da noi, dopo decenni, era ancora alla fase iniziale.
Com’è possibile?
Furono i sindacati a imporre una prolungamento decisamente anomalo
Crede che, in ogni caso, la flessibilità sia sostenibile per le casse dello Stato?
La riforma Fornero ha innalzato a 20 anni il requisito contributivo per le pensioni di vecchiaia, fissato, in precedenza, a 5 anni; allo tesso tempo è richiesto che l’importo dell’assegno sia almeno pari a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale (prima doveva essere pari ad almeno 1,2 volte); se questi due requisiti restassero invariati, pur introducendo la suddetta flessibilità sarebbe comunque piuttosto difficile riuscire a maturare i requisiti per andare in pensione con l’età minima. Occorre, in sostanza, capire come si deciderà di articolare concretamente l’intervento. Più in generale, occorre pensare seriamente a dove reperire le risorse necessarie.
Lei cosa suggerisce?
Probabilmente, una delle ipotesi in ballo consiste nel reperirle all’interno del risparmio complessivo della riforma. Quel che è certo, tuttavia, è che il Paese deve ricollocarsi in una prospettiva di crescita economica. Agendo su una redistribuzione dei risparmi già contabilizzati, infatti, difficilmente si troveranno sistematicamente le risorse necessarie per gli interventi da mettere in campo nei prossimi mesi.
(Paolo Nessi)