Quando si pensa che peggio di così non potrebbe andare, arrivano i nuovi dati dell’Istat. E, per l’ennesima volta, certificano il nuovo record negativo. Nel mese scorso, in Italia, la disoccupazione è arrivata al 12%. Ci sono 3milioni 83mila persone senza lavoro. Ovvero, lo 0,7% in più del mese precedente, il 13,8% in più dell’anno prima. Quella giovanile, poi, è addirittura impressionante, ed è pari al 40,5%, (+5,9% rispetto ai 12mesi). Abbiamo chiesto a Michele Tiraboschi, Direttore del Centro Studi Internazionali e Comparati Marco Biagi, come interpretare questi numeri.



Di volta in volta, la situazione sembra essere peggiorata.

La disoccupazione è un’emergenza che sta coinvolgendo tutta l’Europa. In Italia, tuttavia, rispetto ai paesi più colpiti, abbiamo una penalizzazione in più: i giovani disoccupati sono molto più numerosi degli adulti, quasi quattro volte tanto. Un’anomalia che l’ultima riforma del mercato del lavoro ha cercato di correggere adottando misure, evidentemente, sbagliate.



Cosa intende?

Ci si è focalizzati per l’ennesima volta sulle tipologie contrattuali e sulle regole del lavoro, dimenticando che necessitiamo di un profondo e radicale cambiamento del nostro modo di fare impresa, di produrre e di organizzare il lavoro. In tale senso, su scala internazionale, il nostro Paese è piuttosto in ritardo. Non è un caso che la Germania, che è a due passi da noi, non abbia una disoccupazione così alta, e che quella giovanile sia pari a quella adulta.  

Quindi?

Da noi, anzitutto, non si è mai prodotta una reale trasformazione del sistema formativo-educativo, che non è orientato verso le esigenze del mercato del lavoro. Spesso, le aziende non riescono a trovare particolari figure professionali. Anche laddove vi sia una formazione coerente in termini di tipologie di profili professionali, i contenuti dell’intervento formativo non risultati adeguati. Sono lontani da quella praticità e concretezza che le aziende chiedono. Un laureato in giurisprudenza, per intenderci, normalmente non ha mai visto un contratto. Si tratta di una formazione che anche se troverebbe uno sbocco sul mercato, è astratta e teorica. Non dimentichiamo, infine, che la stragrande maggioranza dei ragazzi austriaci o tedeschi, entrano nel mercato del lavoro a 15-16 anni.



Com’è possibile?

In questi paesi vige un sistema duale tale per cui i giovani studiano e lavorano contemporaneamente, grazie all’istituto degli apprendistati. Da noi solamente il 2,7% degli apprendisti ha meno di 18 anni. Questo strumento viene usato, semplicemente, come contratto di lavoro a termine. A tutto ciò si affianca l’esigenza di un cambiamento culturale delle relazioni industriali che accompagni la modernizzazione del lavoro.

 

In cosa dovrebbe consistere il cambiamento?

Solo da noi esiste un sistema così rigido rispetto alle mansioni e, quindi, alle retribuzioni. Altrove, un lavoratore che perde motivazioni, energia e intensità può essere sposato su altre mansioni che siano comunque congrue e gratificante, ma, magari, economicamente peggiorative. Non è importante come si assume e come si licenzia, ma come si gestisce e valorizza il lavoratore durante il rapporto. Il nostro sistema di inquadramento e di classificazione del personale, e i nostri modelli contrattuali risalgono agli anni ’70. Sostanzialmente, salvo rare eccezioni, è tutto fermo a un modello fordista di impresa. Questo significa, tra le altre cose, meno produttività e salari più bassi.

 

(Paolo Nessi)

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