La crisi sta mettendo duramente alla prova la tenuta di tante amministrazioni pubbliche, colpendo profondamente la loro capacità di offrire servizi adeguati alle esigenze dei cittadini, in particolare nell’ambito del welfare. Da un lato i vincoli imposti dalla spending review permanente impediscono alle istituzioni, specialmente quelle locali, di finanziare svariate attività a carattere sociale; dall’altro, il modificarsi di rischi e bisogni sociali mettono in seria difficoltà chi quotidianamente cerca di offrire risposte concrete alle necessità dei cittadini.



Una risposta a queste problematiche molto attuali può venire da cosiddetto secondo welfare, mix di protezioni e investimenti sociali a finanziamento non pubblico forniti da attori economici e sociali collegati in reti dal forte ancoramento territoriale, che vanno progressivamente affiancandosi al primo welfare, garantito dallo Stato. Tra gli attori del secondo welfare possiamo sicuramente annoverare le imprese che, soprattutto da quando è iniziata la crisi, hanno sviluppato forme sempre più evolute di welfare aziendale a favore dei propri dipendenti.



Spesso considerato come un gesto di generosità, un dono da parte di un imprenditore illuminato ai propri lavoratori, il welfare aziendale rappresenta piuttosto un vero e proprio investimento per le aziende. Come dimostra un recente rapporto di McKinsey, i servizi di welfare offerti ai dipendenti – dai buoni spesa alle spese sanitarie, dal sostegno all’educazione dei figli all’assistenza ai genitori anziani fino ai classici strumenti work-life balance – rappresentano un guadagno concreto e sostanzioso.

Ogni euro investito in welfare aziendale raddoppia il proprio valore, garantendo sia un risparmio dei costi per l’azienda che una maggiore produttività per unità di lavoro. I vantaggi del welfare aziendale, tanto per le imprese quanto per i lavoratori, non sono quindi in discussione, ma non mancano tuttavia alcune criticità. Lo sviluppo di strumenti adeguati a rispondere alle esigenze dei dipendenti hanno un costo spesso accessibile solo per le aziende di grandi dimensioni – si pensi ad esempio ai sistemi sviluppati da Luxottica, Tetrapack, Nestlè e diverse altre società multinazionali – che posseggono competenze e risorse adeguate ad avviare programmi di welfare incisivi.



Questo significa che, nonostante i servizi di welfare garantiti dallo Stato siano sempre più incerti, solo una piccola parte di cittadini-lavoratori potrebbe usufruire di benefit alternativi garantiti dalle proprie aziende. Il rischio, dunque, è che si crei una forte disuguaglianza tra chi lavora e chi non lavora, e che anche chi possiede un impiego abbia opportunità molto diverse a seconda della posizione occupazionale ricoperta.

Se si considera che il nostro tessuto produttivo è costituito prevalentemente da Pmi e che il livello di disoccupazione risulta sempre più alto (12,8% secondo gli ultimi dati Istat) è facile intuire come la questione non possa essere sottovalutata. Per ovviare alla problematiche delle dimensioni aziendali una risposta può provenire dallo sviluppo di strumenti che sostengano imprese di piccole e medie dimensioni interessate a strutturare sistemi di welfare integrati.

In questo senso l’attore pubblico, anche se in difficoltà nell’erogazione di alcuni servizi, può svolgere un ruolo importantissimo come coordinatore, mediatore e promotore di strumenti che mettano in relazione attori diversi del territorio. Un esempio di questa modalità operativa è quella seguita delle Reti di conciliazione lombarde che, grazie alla regia della DG Famiglia di Regione Lombardia, hanno predisposto e sviluppato sistemi multi-stakeholder capaci di coordinare attività innovative in tema di conciliazione famiglia-lavoro. Sempre in Lombardia appare particolarmente interessante lo strumento dei bandi per il welfare aziendale volti a sostenere, attraverso l’introduzione della cosiddetta dote conciliazione, quelle imprese che desiderano sviluppare servizi di welfare da dedicare ai propri dipendenti.

Non è però solo l’amministrazione pubblica a poter creare condizioni per l’innovazione del welfare aziendale. A Treviso, Unindustria e sindacati della provincia hanno firmato un patto per lo sviluppo ed elaborato uno schema di contratto unico che, con le opportune modifiche, possa essere applicato a tutte le Pmi del territorio trevigiano allo scopo di prevedere soluzioni di welfare per i lavoratori. Similmente alcuni imprenditori – come i membri di Giunca (Gruppo Imprese Unite Nel Collaborare Attivamente) a Varese o le componenti del Bionetwork di Pavia – hanno utilizzato con successo il contratto di rete, strumento nato per la libera aggregazione tra aziende, con l’obiettivo di aumentare la competitività e fornire congiuntamente servizi di welfare ai propri collaboratori.

Il welfare aziendale nel contesto attuale può svolgere un ruolo davvero importante per poter garantire benefici e servizi a un numero importante di cittadini italiani. Tuttavia, affinché possa essere una risorsa vantaggiosa per una fetta di collettività più ampia dei soli lavoratori delle grandi imprese, occorre che si sviluppino strumenti, tanto in ambito pubblico che privato, che possano sostenere e mettere concretamente in comunicazione quanti hanno interesse a investire in servizi dedicati ai lavoratori.