Il governo, non solo per ragioni di effettiva emergenza economica (hanno pesato, per lo più, le promesse elettorali dei  partiti di maggioranza ai rispettivi elettori), ma anche per quelle, si è concentrato negli ultimi tempi sul reperimento delle risorse per sospendere la prima rata dell’Imu, per finanziare la cassa integrazione in deroga ed, eventualmente, per scongiurare il prossimo aumento dell’Iva. Resta, tuttavia, sullo sfondo la riforma della disciplina Fornero sulle pensioni, complice la consapevolezza dei danni che ha prodotto e che potrebbe continuare a produrre, non solo sul fronte sociale ma anche economico. L’ipotesi principale per modificarla senza stravolgerla consiste nell’introduzione di un meccanismo di flessibilità che consenta di scegliere se andare in pensione prima o dopo, entro un range compreso tra i 62 e i 70 anni, in base a penalizzazioni e incentivi. Si parla, inoltre, dell’introduzione della cosiddetta staffetta generazionale: il lavoratore senior accetta una riduzione delle sue ore di lavoro in cambio dell’impegno da parte dell’azienda ad assumere un giovane. Abbiamo fatto il punto sulla situazione con Massimiliano Fedriga, deputato della Lega Nord in commissione Lavoro.



Secondo lei, la riforma Fornero va cambiata?

Credo che vada interamente riscritta. Occorre riportare l’età pensionabile ai livelli precedenti, con l’introduzione del principio della volontarietà nella prosecuzione del rapporto di lavoro. In sostanza, sarà necessario ripristinare il sistema delle quote.

Non crede che, rispetto alle quote, vada comunque elevata l’età pensionabile?



Non direi. Già con l’ultimo intervento del governo Berlusconi, il nostro sistema si è uniformato, per eccesso, al livello europeo.

Tornare alle quote è un’ipotesi finanziariamente sostenibile?

La riforma è stata fatta allo scopo di utilizzare i soldi dei lavoratori per coprire, anzitutto, il buco di 10 miliardi dell’Inpdap. Un buco che, oltretutto, si è prodotto a causa del fatto che numerose amministrazioni pubbliche, specialmente del mezzogiorno, non hanno pagato la loro parte di contribuiti ai propri dipendenti. Non si capisce, quindi, perché i lavoratori privati dell’Inps, istituto che ha assorbito l’Inpdap, debbano farsi carico dei buchi del pubblico. Non dimentichiamo, inoltre, che un rapporto della Commissione europea del  2009 indicava l’Italia come Paese virtuoso, l’unico, nell’Ue, che stava diminuendo la propria spesa previdenziale.



Cosa ne pensa, invece, dell’ipotesi di introdurre un meccanismo di flessibilità?

Le penalizzazioni che vogliono introdurre, anzitutto, non sono contemplabili per gli esodati. A costoro, infatti, sono state cambiate le regole in corso d’opera e non si capisce perché dovrebbero accettare una riduzione del proprio assegno pensionistico. Non dimentichiamo, inoltre, che chi andrà in pensione con il sistema contributivo pieno subirà già di per sé delle pesanti penalizzazioni. Acuirle non mi sembra opportuno. Si può valutare, eventualmente, i singoli casi, laddove la penalizzazione, cioè, non risulti eccessiva.

 

Come va risolta la questione degli esodati?

Attraverso le deroghe immediate. Costoro vivono in uno stato di emergenza sociale, non avendo né pensione, né stipendio, né ammortizzatori. Pensiamo che l’unico modo sia, per l’appunto, la reintroduzione delle quote. Le deroghe, infatti, come ha dimostrato la Ragioneria generale dello Stato costano di più del vecchio sistema.

 

Cosa ne pensa, infine, della staffetta generazionale?

Può rivelarsi utile a patto che sia preservata, anche in questo caso, la volontarietà del lavoratore anziano. Resta evidente il fatto che non si tratterà di una risposta risolutiva. D’altro canto, possiamo fare le migliori riforme del lavoro e delle pensioni possibili, ma finché non si ridà ossigeno alle imprese, i nostri giovani resteranno senza lavoro perché non avranno nulla da produrre. 

 

(Paolo Nessi)

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