Oggi si ritrovano a Roma i ministri dell’economia e del lavoro di Italia, Francia, Germania e Spagna per discutere di politica europea in favore dell’occupazione, in particolare quella giovanile, il vero cancro di una crisi che da 5 anni sta drammaticamente segnando il nostro tessuto sociale. Il vertice sarà aperto da una colazione di lavoro con il presidente del Consiglio Enrico Letta. L’incontro, il primo di questa tipologia, vuole essere un importante viatico per i prossimi appuntamenti, come il Consiglio europeo di Bruxelles del 27-28 giugno, l’incontro di Berlino del 3 luglio e il G20 a Mosca di metà luglio.



Nell’ordine del giorno del Consiglio europeo troviamo infatti, tra gli altri, questi due punti in discussione: “(a) exchange views on the action to be taken at national level and endorse country-specific recommendations to guide Member States in their structural reforms, employment policies and national budgets, thus concluding the 2013 European Semester; (b) assess the implementation of the Compact for Growth and Jobs, with a particular emphasis on measures aimed at creating jobs, especially for the young, and on boosting the financing of the economy for fast-acting growth measures”.



È evidente che qui è in gioco l’integrazione del mercato del lavoro, per reali pari opportunità tra tutti i lavoratori europei, quindi anche tra tutti i giovani europei, con ricadute nei sistemi di formazione, di orientamento, di welfare, di modelli di apprendistato, di politiche attive. Sarà, ancora una volta, un’occasione mancata di reale cambiamento delle politiche nazionali in tema di formazione e lavoro? Oppure, si trasformerà in una melina, valida solo per le prime pagine dei giornali, ma del tutto inefficace in termini di innovazione normativa? Se pensiamo, per fare un solo esempio, che la disoccupazione giovanile in Germania tocca appena il 7%, mentre in Italia supera oggi il 40%, qualche domanda i decisori politici se la dovranno pur fare, se non vorranno essere travolti dalla protesta sociale.



Temi, come si vede, davvero impegnativi, se presi sul serio. Appunto, se presi sul serio. Il confronto, proposto dal nostro ministro Giovannini nell’incontro recente di Parigi, nasce dalla constatazione che solo un rapido miglioramento del mercato del lavoro può rilanciare la crescita dell’economia europea. Si tratta, quindi, di passare dalle intenzioni ai fatti, altro modo per dire che il Consiglio europeo va preparato bene, con un accordo che vincoli i governi nazionali, per combattere con i fatti la disoccupazione, soprattutto quella giovanile.

All’appuntamento di Roma con i ministri Enrico Giovannini e Fabrizio Saccomanni partecipano per la Francia il ministro del Lavoro, occupazione e dialogo sociale, Michel Sapin, e il ministro delle Finanze, Pierre Moscovici; per la Germania il ministro del Lavoro e degli affari sociali, Ursula Von der Layen, e il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble; per la Spagna il ministro dell’Economia e della competitività, Luis de Guindos Jurado, e il ministro per l’Occupazione e la sicurezza sociale, Maria Fátima Bañez García. Proviamo ora a fare mente locale su quale possa essere, per noi italiani, il filo conduttore di una concreta discussione su questi temi, sapendo di avere degli interlocutori che ci possono dare uno spazio, in termini di apertura alle reali pari opportunità per i nostri giovani.

Sappiamo qual è il deficit di base, strutturale, del nostro sistema formativo, deficit appena sfiorato dal ministro Carrozza nella recente audizione alle commissioni parlamentari. Segno evidente, purtroppo, che nemmeno lei è consapevole, da universitaria, dei problemi aperti del mondo della scuola, in termini di valore sociale dei percorsi di studio.

Più che l’audizione di un ministro, a me è sembrata una relazione introduttiva ai lavori di un convegno della Cgil, centrata sulla conferma “statalista” del nostro sistema educativo, da un lato, e dall’altro da una preoccupazione corporativa di difesa dell’esistente, come modello da preservare e da rifinanziare, non certo da ripensare. Una delusione, segno che la “scuola reale” è ancora lontana, al di là delle solite frasi di rito.

Perché la Carrozza, come segno di una “solidarietà nazionale”, non propone, appunto, “contratti di solidarietà” anche per il mondo della scuola, poi per tutto il pubblico impiego? Perché la crisi deve ricadere quasi totalmente sul mondo del lavoro privato? Perché quando si parla di flessibilità si pensa solo al privato, mentre la “cultura dei risultati”, nascosta dietro alla “anzianità di servizio”, è nei fatti assente dal settore pubblico? Perché continuare con organi collegiali, nel mondo della scuola, che consegnano al Collegio dei docenti un permanente conflitto di interessi? Leggendo la relazione del ministro Carrozza un’osservazione si è fatta in me spontanea: le buone nuove non possono venire da viale Trastevere. Del resto, è difficile pretendere che la “scuola reale” sia di casa nelle stanze di un ministero che, come agenzia del lavoro, è seconda al mondo solo dopo il Pentagono, quando ancora oggi si pretende di parlare della scuola solo sulla base di dati statistici, senza mai essere entrato in una classe, gestito una scuola, un collegio dei docenti, i rapporti con un territorio e le famiglie. Impossibile.

Le buone nuove, però, ci vogliamo credere, potrebbero arrivare da queste occasioni d’incontro, cioè dalla scorza dura della realtà. Il deficit di base, dicevo, del nostro sistema formativo è l’ideologica diffidenza nei confronti dei percorsi di studio a impronta “vocazionale”, cioè pensati in relazione agli sbocchi, alle competenze da maturare, più che a quel genericismo culturale che desertifica ogni anno i nostri giovani, con titoli di studio senza mercato del lavoro. Col risultato che solo il 23% degli studenti frequenta gli istituti professionali, contro il 64% dei danesi, il 76% dei tedeschi e il 90% degli svizzeri. In questi paesi, insomma, la scelta delle superiori avviene sulla base di test e prove, non per libero arbitrio, con possibilità comunque di passaggi, sempre sulla base di test e prove, favorendo dunque la qualificazione dei percorsi e la selezione dei formatori.

Per non parlare, a parte rare eccezioni, dei progetti di integrazione scuola-lavoro. Nella mia scuola, con 79 classi, solo 2 stanno seguendo l’alternanza, e questo non avviene in tutte le scuole. Eccezioni, dunque. Qui viene in evidenza l’altro grande deficit culturale del nostro sistema formativo: l’idea che il lavoro non sia di per sé formativo. Un vero vulnus, culturale e sociale. La riforma Fornero, a proposito di apprendistato, aveva cercato di imprimere una svolta, ma gli effetti non sono stati rilevanti. Un apprendistato, poi, da affiancare a efficaci servizi per l’impiego, fondamentali in Germania, tanto da diventare negli ultimi dieci anni il terreno politico di maggiore investimento, con risorse ricavate da tagli di altre spese correnti.

Al governo Letta, al di là del rischio “galleggiamento” e dei già troppi “effetti-annuncio”, spetta dunque la responsabilità di un pensiero strategico, capace di prendere il meglio delle esperienze degli altri Paesi. Per questo motivo, la speranza è che l’incontro di oggi non si risolva in soli sorrisi e pacche sulle spalle, ma produca anche coraggiose, per dare una speranza di futuro alle giovani generazioni.

Lo stesso Letta, in realtà, spera di ottenere dall’Europa sostanzialmente due cose: maggiori risorse per il “fondo giovani”, per il 2014-2015, per circa 400 milioni; un qualche scorporo del deficit per questo tipo di investimenti, sapendo già dell’avversione dei paesi europei virtuosi. Le risorse, in poche parole, devono derivare solo dai tagli alla spesa. Il che ci riporta al coraggio di manzoniana memoria, cioè alla necessità di riforme strutturali. Un capitolo a parte prevede, infine, la possibilità di riprogrammazione dei fondi europei. La torta disponibile è ancora di 30 miliardi, tra risorse europee (17 miliardi) e cofinanziamenti nazionali (13), sino a tutto il 2015. Queste somme devono essere impegnate però entro il 2013.

Per il periodo 2007-2013, dai dati diffusi l’altro giorno, si nota che l’Italia sinora ha speso 19,7 miliardi dei 40,5 previsti per gli Fse e per il Fsr, cioè per il fondo sociale e per quello di sviluppo regionale. Solo il 40% delle risorse sono state, però, impegnate. Il governo, in poche parole, potrebbe dirottarli sull’occupazione giovanile. Ci riuscirà la politica, con scelte coraggiose? Resta comunque la questione di fondo, che è bene ripetere, se si vuole cambiare strada rispetto al vecchio assistenzialismo: riforme di struttura. Se diamo solo un’occhiata, per fare un esempio, a come sono stati spesi alcuni Pon (Programmi operativi nazionali), diventa evidente che senza queste riforme sarà difficile immaginare sentieri di speranza per le giovani generazioni. Sapendo bene, comunque, che il “programma nazionale su ricerca e competitività”, previsto per Puglia, Calabria, Sicilia e Campania, con 6 miliardi previsti, in gestione ai ministeri dell’Istruzione e dello Sviluppo economico, a sostegno delle attività di ricerca, innovazione e creazioni di nuove imprese, ha visto impegnata la somma di soli 1,8 miliardi, cioè una cifra al di sotto del minimo richiesto dalla normativa europea. Per dire che non bastano le risorse, se mancano le idee e gli strumenti legislativi adeguati.