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Ci troviamo in un preciso frangente storico in cui, un po’ tutti, si stanno domandando “che fare?”: come affrontare, cioè, il drammatico problema della disoccupazione giovanile. Che ha radici profonde ed estese, da esaminare con attenzione se si vuole giungere a una diversa, più equa e stabile configurazione del mercato del lavoro nel nostro Paese. Ma perché risulta così importante mettere proprio i giovani al centro di ogni riflessione sul lavoro? Principalmente per due ordini di motivi.
Innanzitutto – partendo dalle constatazioni più essenziali – una civiltà non può, pena l’autodistruzione, costruire nel presente condizioni che “tarpino le ali” ai giovani, come purtroppo sta avvenendo, invece di valorizzarne curiosità, dinamicità ed energie caratteristiche di questo prezioso periodo della vita di ciascuno di noi. E poi perché – andando un po’ più in profondità nell’analisi – non vi è chi non veda che l’attuale situazione costituisce l’esito del venir meno, nei fatti, di quella solidarietà intergenerazionale che sancisce la statura umana di un adulto, proprio nel saper riconoscere che, per raccogliere, occorre prima seminare; e che la semina, per portare frutto, richiede la fatica e la pazienza del trascorrere del tempo.
Se oggi, al contrario, non si torna a investire, seminando, e si continua invece a raccogliere, strappando le radici dei pochi fiori e frutti che ancora possiamo trovare sul nostro cammino, diverremo noi stessi sempre più la causa di quella terribile desertificazione che, ahimè, sembra avanzare senza sosta.
È solo attraverso un chiaro investimento sulle competenze dei giovani che potremo colmare il gap che si è creato; occorre, cioè, supportare la costruzione di un soggetto che abbia tutte le capacità necessarie per far fronte all’attuale situazione e sia nelle condizioni di poter sviluppare nuovo valore. Oggi, infatti, il rischio è che la generazione in campo, al di là della buona volontà, non abbia strumenti sufficienti per potercela fare. Per questa ragione è assolutamente fondamentale concentrare i nostri sforzi sull’orientamento e la formazione dei giovani, che saranno certamente in grado di apprendere più in fretta di chi è meno giovane e, così, produrre nuovo valore per tutti.
Come, allora, riattivare la macchina e condurla fuori dal deserto? Compito della nostra generazione è proprio quello di individuare logiche e sistemi che aiutino i nostri giovani a ripartire. Ma tutto questo sarebbe inutile se venisse meno in noi innanzitutto una fondamentale preoccupazione educativa: è solo facendo leva sul binomio libertà-responsabilità dei giovani, infatti, che possiamo augurarci di uscire definitivamente dal deserto. Come afferma il cardinal Camillo Ruini nella prefazione del recente Rapporto-Proposta della Cei sulla situazione italiana, “è proprio nell’incontro-scontro tra la dimensione soggettiva e antropologica del lavoro e quello che possiamo indicare come il ‘principio di realtà’ che si decide, in larga misura, il successo o l’insuccesso dell’Italia nel far fronte alla sfida posta dai mutamenti del contesto mondiale. Si tratta, cioè, di interpretare e vivere la nostra soggettività (…) come effettiva costruzione del soggetto, che può realizzarsi soltanto in stretta connessione con la realtà in cui viviamo”.
E proprio ai giovani, “che sono attualmente i più penalizzati quanto alle possibilità occupazionali e al tempo stesso i più sensibili alle istanze della soggettività” si rivolge innanzitutto il cardinal Ruini, chiedendo loro di “cercare e accettare, o costruire, le occasioni di lavoro esistenti o possibili (…) e poi cercare di cambiarle e migliorarle, creando così effettive possibilità di scelta e di espansione della propria soggettività. Questa – conclude, e noi con lui – sembra essere la via per un reale e non velleitario rafforzamento del soggetto”. Per il bene di tutti.