Quando si parla di riforma della pensioni, soprattutto dopo la legge Fornero che alla fine del 2011 ha portato una vera e propria “rivoluzione” nel sistema previdenziale italiano, la maggioranza dei cittadini drizza le antenne. C’è da scommettere che per lo più si tratti di persone prossime o che comunque vedono già all’orizzonte il traguardo della quiescenza, “terrorizzati” dall’idea che un qualche atto del governo inserisca “scalini”, “finestre mobili” o, peggio ancora, un “muro” dinnanzi all’agognato traguardo. Stavolta costoro possono tirare un sospiro di sollievo: difficile peggiorare la situazione quando il sistema retributivo è stato sepolto, l’età di pensionamento bruscamente innalzata e agganciata a un sistema che la porterà sempre più in alto, le pensioni di anzianità cancellate e un numero indefinito di persone (i cosiddetti esodati) lasciati in un limbo senza reddito alcuno. Anzi, il Premier Enrico Letta ha subito dichiarato nel suo discorso programmatico alle Camere che intende persino riparare ad alcuni “danni” causati dalla normativa vigente. E il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, si è espresso sulla stessa linea.



L’ex Vicesegretario del Pd ha in sostanza fatto proprie le proposte del collega di partito Cesare Damiano, ora Presidente della commissione Lavoro della Camera: salvaguardia di tutti gli esodati e introduzione di un sistema di flessibilità che possa permettere di andare in pensione anche a 62 anni, quindi in anticipo e con una decurtazione sul vitalizio proporzionata a tale anticipo, oppure fino a 70, quindi più tardi e con un “premio” anch’esso commisurato agli anni in più trascorsi a lavorare.



Il problema è che contro queste buone intenzioni cozzano due fattori non da poco. Il primo è il tempo. È passato circa un mese e mezzo dal discorso di Letta, ma alle parole non seguono ancora i fatti. Questo perché l’esecutivo ha faccende più urgenti da affrontare riguardo le tasche degli italiani (Iva, Imu e contrasto alla disoccupazione) e poi perché sul fronte previdenziale non sembra esserci alcuna emergenza. Si pensa in effetti che gli esodati, visti i vari decreti già varati, non saranno un problema fino al 2015. Ma siamo sicuri che non ci siano qua e là “figli della serva” che magari non rientrano nei numeri e nelle tipologie previste da ministero e Inps per qualche ragione burocratica ma che, come gli altri salvaguardati, meriterebbero altrettanta attenzione?



Stia attento quindi l’esecutivo a non sottovalutare il problema, né tantomeno a sopravvalutare la flessibilità, vista come la panacea di tutti i mali. In primis perché non è detto che risulti all’atto pratico così allettante per i lavoratori. Certo, può permettere di anticipare “l’addio” a un lavoro che si è fatto pesante, ma a che prezzo? In un periodo che non è certo di vacche grasse, il pensionando accetterà una decurtazione permanente della sua pensione? Viceversa, si dirà, potrebbe anche pensare a restare a lavoro qualche anno in più, assicurandosi così un “extra” che può sempre far comodo, specie in un vitalizio. Ma in questo caso le aziende non avrebbero niente da ridire?

Certo, queste considerazioni sono troppo poco per dire se la flessibilità sarà un flop o meno, ma qualche dubbio ce lo lascia. Quel che è invece certo è che interventi su esodati e flessibilità hanno un costo e in questo momento il governo ritiene “impossibile” trovare qualche miliardo di euro per evitare l’aumento dell’Iva: figuriamoci per erogare pensioni in anticipo rispetto al dovuto.

Altrettanto certo è che da questa eventuale nuova riforma qualcuno resterà ancora una volta penalizzato: i giovani. Inutile tirar fuori utopiche “staffette generazionali” che hanno il sapore della sperimentazione data la loro difficile fattibilità. Quanti saranno i lavoratori anziani disposti a dimezzare il proprio stipendio? Quante le aziende pronte realmente a un turn over generazionale quando magari sarebbero pronte ai prepensionamenti pur di liberarsi di personale in esubero?

Ma staffette generazionali a parte, i giovani non hanno forse ancora realizzato cosa sarà per loro la pensione. Ancora forse non hanno colto cosa significhi un pieno calcolo contributivo basato su stipendi che risultano in certi casi appena sufficienti a coprire le spese correnti. Forse non rammentano che i loro genitori o nonni vivono con pensioni calcolate su un metodo retributivo, con importi che loro non arriveranno minimamente a sfiorare. Forse non hanno realizzato che nei periodi in cui si sono trovati o si ritroveranno senza lavoro, il mancato versamento dei contributi influirà sull’importo del loro vitalizio. Senza dimenticare che forse da qui al prossimo decennio una nuova riforma di un nuovo governo tecnico porterà a nuove mirabolanti manovre per mettere in sicurezza i conti pubblici. E che forse i servizi di welfare pubblico per gli anziani sono destinati a diminuire (o a risultare più costosi) anno dopo anno.

Forse sarebbe il caso che l’Inps facesse pervenire ai suoi iscritti, anche giovani, la famosa “busta arancione”, con la simulazione della pensione che riceveranno a distanza di anni. No, niente strani calcolatori on line, si mandi una lettera a casa. E non si accampi la scusa dei risparmi: l’Istituto nazionale della previdenza sociale si rammenti che è il lavoratore che versa i contributi (“il datore di lavoro preleva una somma dalla retribuzione per poi versarla all’Inps”, “i contributi vengono calcolati in percentuale sulla retribuzione: una parte è a carico dell’azienda e una parte è a carico del lavoratore”, recita il sito dello stesso Istituto), quindi con quel che “paga”, avrà pur diritto (se non a una pensione decente) almeno a una corrispondenza postale annuale del costo inferiore a 1 euro! Ecco, quando un giovane vedrà nero su bianco “Questa sarà la tua pensione a 70 anni” allora forse comincerà a sentirsi leggerissimamente adirato.

Questa sfilza di forse che ho usato, questi condizionali nascondono una speranza e una preoccupazione, perché la cosa peggiore sarebbe scoprire che, pur messi al corrente dello stato delle cose, i giovani rimangano inermi. Sarebbe uno shock. Vorrebbe dire che non è tanto l’Italia a non essere un Paese per giovani, quanto che i giovani hanno rinunciato a voler essere cittadini.

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