“Prima del vertice europeo di fine giugno, il Governo presenterà un piano nazionale di contrasto alla disoccupazione con particolare attenzione a quella giovanile”. Lo ha confermato il premier Enrico Letta in apertura dei lavori del vertice europeo di venerdì scorso a Roma, con Italia, Francia, Germania e Spagna. All’incontro hanno partecipato per l’Italia il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, e quello dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, per la Francia i ministri Michel Sapin (Lavoro, occupazione e dialogo sociale) e Pierre Moscovici (Finanze), per la Germania Ursula Von der Leyen (Lavoro e affari sociali) e Wolfgang Schaeuble (Finanze), e per la Spagna Luis de Guindos Jurado (Economia e competitività) e Maria Fatima Banezz Garcia (Occupazione e sicurezza sociale). Presente anche il presidente del Consiglio, Enrico Letta. Il confronto era stato proposto dal ministro Giovannini nel corso degli incontri di fine maggio a Parigi ed è nato dal riconoscimento che un rapido miglioramento del mercato del lavoro è condizione indispensabile per rilanciare la crescita dell’economia europea. In vista delle decisioni che deve assumere il prossimo Consiglio europeo, i ministri hanno parlato di come rafforzare il coordinamento tra politiche finanziarie e del lavoro, a livello nazionale e comunitario, per realizzare al meglio la lotta alla disoccupazione, in particolare quella giovanile. IlSussidiario.net ha raggiunto Michele Tiraboschi, direttore di Adapt – Centro Studi Internazionali e Comparati “Marco Biagi”, per sentire il suo parere soprattutto in relazione al problema giovani, vera emergenza europea ma, in particolare, italiana.
Cosa pensa, per quanto è stato possibile apprendere, degli esiti del vertice europeo tra Italia, Francia, Germania e Spagna?
È ancora presto per una valutazione e per capire quanto e quale spazio l’Europa intenda davvero dare al tema del lavoro, oggi senza dubbio marginalizzato dai temi economici e finanziari. Certo è che si tratta di un’inversione di tendenza significativa per tutta l’area comunitaria, anche se è vero che il tema della disoccupazione, soprattutto quella giovanile, interessa prevalentemente il Sud e l’Est Europa, e dunque i paesi più deboli della comunità. Importante sarà anche capire la reale possibilità di utilizzare in modo innovativo i fondi della Banca europea degli investimenti per finanziare le piccole e medie imprese, l’innovazione e l’investimento.
Quali misure si possono prendere “a costo zero” visto che non sembrano esserci risorse?
Per ora il Governo e il ministro del Lavoro si sono limitati a una serie di annunci che, quando diventano reiterati, finiscono con lo spiazzare imprese e operatori. Anche dopo il vertice europeo Enrico Letta annunciava l’urgenza delle misure e che non c’è più tempo da perdere, ma questo è quanto ha detto sin dal giorno dell’insediamento del suo Governo senza aggiungere nulla di concreto. Le stesse misure annunciate come nuove, come la staffetta intergenerazionale, oltre a costare moltissimo, si mostrano deboli perché partono da un presupposto sbagliato, e cioè che per fare posto a un giovane occorra rottamare un anziano. E questo dopo che con una pesante riforma delle pensioni, a firma del Governo Monti, si è detto agli italiani che devono lavorare di più.
C’è massima preoccupazione in Europa e in Italia per la disoccupazione giovanile. Non crede che il fenomeno dell’inattività (Neet), soprattutto in Italia, sia ben più grave?
Disoccupazione, inoccupazione, inattività e sotto-occupazione sono tutti indici di uno stesso problema e cioè del fatto che, in Italia e nel Sud-Est dell’Europa, a essere penalizzati dalla crisi economica e finanziaria sono prevalentemente i giovani. Non così in altri paesi come la Germania, dove il tasso di occupazione giovanile è grosso modo in linea con quello degli adulti. Da noi il tasso di disoccupazione dei giovani è quattro volte superiore a quello degli adulti. Chiaro che una prospettiva di disoccupazione, precariato, sotto-occupazione scoraggia i nostri giovani e li convince che è inutile sforzarsi e cercare di fare qualcosa, tanto nel lavoro che a scuola.
Come di può affrontare il fenomeno dei Neet?
Il Governo studia misure legislative e politiche attive quando invece il problema è culturale e valoriale, e cioè l’assenza per i giovani di maestri e di guide che li aiutino a capire le proprie vocazioni e i sentieri da percorrere con determinazione e fiducia per raggiungere delle mete. La filosofia del “tutto e subito” diventa per molti giovani un muro invalicabile alle prime sconfitte.
Cosa pensa del piano Youth Guarantee in relazione all’Italia?
È un’iniziativa interessante, ma non è con questa misura che potremo aggredire il problema della disoccupazione giovanile. Del resto questo progetto è incentrato su un’efficiente rete di servizi pubblici al lavoro che in Italia non è mai esistita e che certo non si può pensare di realizzare in pochi mesi. Importante sarebbe coinvolgere la rete delle agenzie private del lavoro, che sempre più dovranno essere operatori polifunzionali del mercato del lavoro, come d’altra parte immaginava la legge Biagi, e non solo erogatori di flessibilità numerica attraverso la somministrazione di lavoro. Penso a esperienze del passato come gli sportelli del lavoro “Marco Biagi” del Comune di Milano che bene anticipavano l’idea sottesa alla Youth Guarantee.
In riferimento alla questione giovanile, cosa auspica dall’intervento di riforma del legislatore che si preannuncia?
Con riferimento al tema dell’occupazione giovanile, penso che abbiamo oggi una legislazione in linea con le migliori esperienze europee e internazionali, soprattutto in tema di apprendistato, alternanza e tirocini. Il problema è però che queste buone leggi rimangono inapplicate per l’inadeguatezza progettuale e culturale degli operatori del mercato del lavoro. Penso al ruolo cruciale di scuole e università nella costruzione dei percorsi di transizione verso il lavoro che ancora non viene tuttavia realizzata, salvo casi particolari che però dimostrano che è possibile cambiare prospettiva. Inutile discutere su nuove norme sull’apprendistato se poi pochi sanno scrivere un piano di formazione e se mancano tutor e maestri di mestiere in grado di trasmettere le competenze.
Perché a oggi l’apprendistato non ha funzionato? E come potrebbe funzionare?
Il mio gruppo universitario, che ruota attorno all’esperienza del centro studi Adapt (www.adapt.it), è uno dei pochi in Italia che ha già attivato un dottorato industriale con apprendisti di alta formazione e ricerca analogamente a quanto avviene in altri paesi. Dal mio angolo di osservazione il problema non sono le norme, che sono buone, e neppure gli incentivi economici (che sono più che adeguati). Quello che manca è un atteggiamento di vera integrazione e cooperazione tra scuola e/o università e mondo delle imprese; questa è la grande criticità perché – senza un aggancio con il sistema educativo di istruzione e formazione – l’apprendistato resta un semplice contratto di lavoro che solleva non poche attese e delusioni tra gli operatori che pensano di aver fatto un affare, con un contratto meno costoso, e poi si trovano invece impreparati a dover affrontare inevitabili passaggi gestionali che non sono burocrazia, come molti credono, ma semplicemente l’implementazione di un piano formativo individuale e la certificazione degli esiti del percorso di apprendimento.
(Giuseppe Sabella)