Dopo la Riforma del mercato del lavoro, varata dall’allora Ministro Elsa Fornero, tutti gli esponenti politici e sociali si sono prodigati nel contestare le numerose distorsioni provocate dalla legge 92/2012. In questi giorni il ministro Giovannini ha la possibilità di sistemare le inadeguatezze della norma e, addirittura, provare a introdurre elementi migliorativi per il rilancio dell’occupazione. Andiamo per ordine. Il provvedimento più contestato della Riforma Fornero è stato sicuramente l’allungamento del periodo tra un contratto a termine e il suo rinnovo, nel dialetto del settore conosciuto come “stop and go”. Le critiche sono piovute dalle Parti sociali, sindacati e rappresentanze del mondo datoriale. Non aveva senso penalizzare il contratto a tempo determinato, essendo questa una forma contrattuale che tutela il lavoratore da un punto di vista economico e normativo. Ovviamente racchiude in sé la temporaneità del rapporto di lavoro, ma non si persegue la stabilità rendendo più complicate le nuove assunzioni a termine.
Una parziale revisione della norma fu introdotta già nel decreto sviluppo di Passera, il quale conferiva alle Parti sociali la possibilità di derogare a tali periodi, introducendo pause di durata più limitata. Sicuramente il pacchetto lavoro che presenterà Giovannini conterrà un’ulteriore revisione, riducendo i periodi tra un contratto e un altro a 10 e 20 giorni (se il rapporto di lavoro iniziale è rispettivamente inferiore o superiore a 6 mesi).
Altra modifica che il ministro potrà apportare è l’ampliamento del periodo di acausalità del contratto a termine. Di norma il contratto a tempo determinato può essere stipulato solo a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, riferite anche all’ordinaria attività dell’impresa. La riforma Fornero ha stabilito che il primo contratto a termine, di durata non superiore a 12 mesi e non prorogabile, stipulato tra lavoratore e azienda fosse esente dall’onere di esplicitare tale causale. Giovannini intende prolungare questo periodo a 18 mesi, per una durata sperimentale del provvedimento di due anni (in concomitanza con Expo 2015).
Sull’apprendistato l’unico intervento possibile consiste nel dare uniformità nazionale ai piani formativi. Attualmente ogni Regione disciplina la formazione trasversale dal punto di vista di ore e contenuti, mentre la parte professionalizzante è in larga parte demandata alla Contrattazione collettiva. Ritengo che ogni strumento volto a semplificare tale tipologia contrattuale debba essere ben visto. La somministrazione potrebbe rivestire questo ruolo. Una Agenzia per il lavoro, assumendo a tempo indeterminato un apprendista, si farebbe da garante del percorso professionale del giovane, avendo anche la possibilità – nel caso non dovesse trovare continuità presso una determinata impresa – di ricollocarlo presso un’altra realtà aziendale così da ultimare il periodo di apprendimento.
Valuterei in maniera totalmente negativa un eventuale passo indietro sulle collaborazioni a progetto e sulle partite Iva individuali. La Riforma Fornero ha ristretto le maglie di due tipologie contrattuali che rappresentavano ormai una distorsione del mercato del lavoro: forme contrattuali parasubordinate e autonome venivano poi applicate a lavoratori che fattivamente svolgevano la propria attività come lavoratori dipendenti subordinati. In sostanza, il lavoratore prendeva un doppio svantaggio: essere alle dipendenze, quindi senza nessun tipo di autonomia reale, ma senza poter usufruire dei diritti e delle tutele previste dai Contratti collettivi nazionali di lavoro. Allargare nuovamente le maglie di queste tipologie contrattuali sarebbe un atto di disonestà oltre che di irresponsabilità. Oltremodo, le Parti sociali hanno svolto, tramite la contrattazione, un’attività regolatoria e sanatoria delle situazioni contrattuali divenute irregolari con l’entrata in vigore della Legge Fornero, salvaguardando livelli occupazionali e tutele reali dei lavoratori.
La riforma dei servizi per l’impiego sarebbe sicuramente auspicabile, ma realisticamente, per l’iter che il Ministro sta seguendo, attualmente non realizzabile. Occorrerebbe innanzitutto attuare operativamente quanto il decreto 276/03 già prevedeva in merito, oltre che disciplinare chiaramente il rapporto tra soggetti pubblici (gli ex uffici di collocamento) e privati (Agenzie per il lavoro su tutti).
Molti hanno scritto più volte che nessun incentivo economico può essere più efficacie di un disincentivo normativo, altri che l’occupazione non si crea per legge ma con lo sviluppo. Tutte cose condivisibili. Credo però una cosa: che la disoccupazione si ferma principalmente attraverso la carità e la solidarietà di un popolo. È indubbio che il livello politico, nel senso più alto e nobile del termine, può favorire con strumenti e scelte coraggiose e responsabili e che lo sviluppo economico gioca un ruolo di volano fondamentale. Queste considerazioni però non possono far venire meno il personale contributo che ognuno deve dare in risposta a questa crisi.
Nessuno può tirarsi indietro, vi fosse anche solo una persona in stato di disoccupazione. Ciascuno, pur nella limitatezza delle proprie possibilità, deve adoperarsi affinché una persona possa trovare un lavoro attraverso il quale poter esprimere sé. Sicuramente, come ogni tentativo umano, sarà per sua natura limitato: perché a una persona che trova lavoro, per una persona che viene aiutata, che riceve una compagnia, ve ne saranno centomila, un milione che un lavoro e un sostegno umano ancora ricercano.
Occorre che un popolo riscopra di essere solidale. Quella solidarietà operosa che mette in moto l’umanità: dalla casalinga che informa la vicina disoccupata se il supermercato ricerca una cassiera, fino alle esperienze di carità più strutturate e organizzate. È il tempo della persona, nessuno può demandare la propria responsabilità.