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Il 22 aprile 2013 il Consiglio dell’Unione europea ha approvato una raccomandazione, denominata “Youth Guarantee”, con l’obiettivo di assicurare ai giovani europei under 25 un’opportunità qualitativamente valida di lavoro o formazione entro quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita da un percorso di formazione, stanziando per questo obiettivo 6 miliardi di euro e destinandone tra i 400 e i 600 milioni all’Italia.



Ma come mai l’Ue è ricorsa a questa iniziativa? Per due – dichiarate – ragioni: innanzitutto perché il 24% dei giovani europei è disoccupato – con punte superiori al 50% in paesi come Spagna e Grecia e il 40,3% in Italia, mentre in Germania si è solo al 7,5% – e poi perché si è calcolato che il costo dell’esclusione di un così grande numero di persone dal mercato del lavoro europeo è di 153 miliardi di euro all’anno, più dell’1,2% del Pil europeo. Di fronte a una tale emergenza, l’Europa non si è però limitata a stanziare fondi, ma ha fornito linee guida circa il loro utilizzo, la prima delle quali consiste nella precisa richiesta a ciascun Paese di elaborare strategie basate sulla partnership tra servizi per l’impiego pubblici e Agenzie per il lavoro private, datori di lavoro, Parti sociali, associazioni giovanili, individuando un’autorità pubblica che ne gestisca il coordinamento.



E qui, per quel che ci riguarda, casca l’asino. A prescindere infatti dall’esatta misura e dalla tempistica precisa dell’erogazione di questi fondi, nel nostro Paese il problema principale da affrontare è proprio l’annosa questione del rapporto tra pubblico e privato. Non vorremmo infatti che i denari previsti per ridurre la disoccupazione giovanile finiscano per sostenere i costi di struttura dei centri per l’impiego, rivelatisi sinora davvero poco efficaci, con gravissimi esiti negativi per tutto il nostro sistema.

Mai come oggi occorre infatti non farsi tentare da una concezione assistenzialistica incapace di tenere debito conto di ciò che serve davvero al nostro Paese: è invece più che mai necessario mantenere “la barra diritta” e navigare con determinazione verso un deciso cambiamento di logiche che, purtroppo, hanno ridotto l’Italia nelle difficili condizioni attuali. Da questo punto di vista, il fatto che il decreto lavoro approvato mercoledì scorso privilegi innanzitutto i giovani privi di diploma di scuola media superiore o professionale non lascia troppo ben sperare quanto alla determinazione nel voler perseguire logiche che conducano in primis alla generazione di maggior valore.



Più in generale, occorre però davvero riflettere su quale sia la migliore configurazione del rapporto pubblico privato, per giungere a una efficace sinergia nell’ambito di una chiara distinzione di ruoli, proprio allo scopo di ottenere i migliori risultati possibili, innanzitutto per i nostri giovani. La stessa riforma Fornero, in effetti, ha previsto la costituzione di un tavolo nazionale di coordinamento sulle politiche attive pubbliche, oggi quanto mai opportuno. Dopo una serie di sperimentazioni regionali, siamo ora giunti al punto in cui, a parere di chi scrive, è necessario istituire un sistema di politiche non frammentato ma nazionale, con una cornice di regole condivise, dove siano chiari il ruolo e la responsabilità degli attori coinvolti: sistema pubblico, persone, operatori privati.

Al sistema pubblico va chiesta una precisa “governance” centrale, capace di dare stabilità e continuità ai progetti, e la realizzazione di un quadro normativo chiaro e omogeneo, così da orientare tutto il sistema degli operatori e degli utenti verso approcci di medio-lungo termine, ma già efficaci e capaci di creare valore nel breve. Sarebbe a questo proposito opportuno, anche per ciò che concerne l’applicazione della Youth Guarantee, aumentare la capacità di rapporto coi cittadini dei servizi per il lavoro, portando le presenze sul territorio a 3.000 punti di contatto, di cui circa 550 facente parte dei centri per l’impiego.

Quanto alle persone, che devono tornare a essere le vere protagoniste di una reale ripresa economica e del loro stesso sviluppo, è bene che siano responsabilizzate nel decidere liberamente se e come aderire ai programmi di supporto alla ricollocazione e formazione, con un sistema che riconosca il diritto dell’utente a ricevere servizi differenziati in relazione al diverso livello di occupabilità e preveda un eventuale decadimento della loro presa in carico da parte degli operatori specializzati a fronte del rifiuto sistematico delle proposte di lavoro e/o di formazione ricevute.

Gli operatori privati, infine, che hanno il compito di produrre i migliori risultati possibili. Da questo punto di vista una forte premialità nell’erogazione dei contributi a obiettivo raggiunto, che tenga possibilmente conto del grado di svantaggio colmato e della rapidità nel trovare una nuova occupazione per il lavoratore, sembra essere la strada ottimale. La soluzione maggiormente efficace è infatti quella di attribuire l’erogazione materiale dei servizi a soggetti autorizzati e/o accreditati, dotati di specifici metodi e competenze, lasciando al pubblico – a maggior garanzia dell’utenza – le funzioni di iniziale rapporto con le persone, la loro accoglienza e attribuzione del profilo più idoneo, con conseguente definizione del servizio a cui hanno diritto e indirizzamento verso gli operatori più efficaci.

Solo così, attraverso una precisa assunzione di responsabilità e la chiara valorizzazione delle migliori competenze di ciascuno sarà davvero possibile non solo enunciare astrattamente che si intende far ripartire l’economia del Paese, ma, piuttosto, tracciare una strada efficace, percorrendo la quale ogni persona potrà fare esperienza di un metodo capace di condurre a una crescita effettiva e riattivare così, finalmente, quel “bene scarso” che, come rilevato recentemente dallo stesso ministro Giovannini, è proprio la speranza che le cose possano cambiare in meglio.

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