Quest’anno ricorrono 50 anni dall’assegnazione del Premio Nobel per la Chimica a Giulio Natta, a cui va il merito di aver inventato il Moplen ovvero la molecola del polipropilene, una rivoluzione ancora attuale nella plastica durevole e dagli impieghi molto diversificati (giocattoli, casalinghi, applicazioni industriali e tante altre cose). La plastica, come molte altre invenzioni della chimica e dei derivati da essa, ha arricchito la nostra piattaforma del made in Italy, come i filati e le confezioni, le fibre sintetiche e artificiali, con un elenco che arriva agli elettrodomestici e altri manufatti, costruiti con nuovi materiali sostitutivi di quelli ferrosi; ma anche buona parte delle innovazioni nell’automotive e nell’edilizia hanno avuto una genitorialità italiana, sconosciuta al grande pubblico.
Parlare oggi di politica industriale significa ripartire dalle domande di fondo che hanno posto le condizioni, nel tempo, dei successi della nostra “manifattura sui generis”: studio rigoroso di nuove applicazioni, di nuovi campi di impiego, di sinergie e complementarietà tra diversi apporti professionali, di una fecondità tra comunità scientifica, imprese e istituzioni. Partecipando ad alcune assise dei vari settori industriali (quelle sopra riportate sono sensazioni ricavate dall’Assemblea di Federchimica), si ha la percezione dello stato di salute del settore “secondario”, la vera ossatura del nostro Paese, di chi produce all’ombra del campanile.
Ed è indubbio che lo stato di salute è assai diversificato in ragione delle diverse produzioni, delle varie situazioni di posizionamento sui mercati (quote di export), dei fattori di competizione, della dinamica dei costi e dei valori aggiunti, dei tassi di innovazione e investimento realizzati e/o in corso, dei rapporti con l’ambiente, con la Pubblica amministrazione. Parlare di industria oggi significa parlare di tanti mondi, di tante cose diverse anche se le trasversalità sono aumentate: ecco perché parlare di politica industriale oggi è assai più difficile che in passato, tenuto conto di una crisi che non è solo dei mercati e dei consumi, ma è anche di paradigmi e di rapporti con tutto l’universo dei diversi stakeholder.
E il sintomo è il lavoro, che diminuisce, che manca, che si fa fatica a trovare o a ritrovare se si è perso. Cinque anni di crisi si sentono e si vedono: meno imprese, meno occupati, meno investimenti, meno consumi e il circolo della spirale recessiva continua, con un’area di sofferenza sociale in aumento, anche sotto l’effetto di una fase negativa che si è acutizzata nel corso del 2012. Si percepisce anche una debolezza di strumentazione e di visione, sia su scala europea che nazionale, quasi che da sola la politica (e le istituzioni) possa farcela da sola: è invece necessaria una grande assunzione di responsabilità di tutti i soggetti, pubblici e privati, sociali ed economici, dalle istituzioni del credito e della finanza a chi disegna assetti normativi e regolatori.
Ecco, probabilmente il punto da cui partire sta qui, ovvero nella possibilità/necessità che ciascuno senta compiti e responsabilità nel rimettere in moto il circolo, consapevoli che talune scorciatoie non sono più possibili e che alcuni nodi sono venuti al pettine. Ciascuno deve fare la propria parte e in particolare non scoraggiare nessuna forma di investimento: semplificazione normativa e celerità nelle procedure amministrative, fiscali, civili, giudiziarie rappresentano il primo modo per incentivare chi intende continuare a fare impresa e l’imprenditore. Ecco perché, probabilmente, tutti i fronti sono decisivi, sia quelli con il credito che quelli tra le Parti sociali, quelli di un buon rapporto con l’ambiente e con i propri collaboratori; ma ci permettiamo di segnalare la madre delle questioni, ovvero i lacci e i lacciuoli delle innumerevoli questioni inerenti il rapporto con ciò che è pubblico.
Autorizzazioni, permessi, processi, procedure, sanzioni, nulla osta, autorità ed enti: tutto quanto deve essere semplificato, non si può continuare in questa strada dell’inimicizia e dell’indifferenza (quando va bene), del silenzio e delle carte sempre “giacenti sulla scrivania”. Non ne hanno colpa gli addetti pubblici, sono le procedure “scollegate” dagli obiettivi. Infatti, nella sanità e in molti altri settori pubblici molte cose funzionano bene (e in molti casi in modo eccellente) quando al centro vi è la persona e i suoi bisogni; se al centro ci fosse l’impresa, il lavoro e le persone che in essa vi operano probabilmente molte cose cambierebbero. Anche in Italia.