Un’altra impresa se ne va. Per ora, parte di essa. Ma, secondo i sindacati e i lavoratori coinvolti, è solo il preludio allo smantellamento totale. La Indesit Company ha annunciato 1.425 esuberi. Le produzioni italiane non sarebbero più sostenibili e alcuni degli impianti saranno spostati in Polonia e Turchia. L’azienda ha tenuto a precisare che il nostro Paese resta strategicamente centrale. E che, per questo, è stato studiato un piano di 70 milioni di euro nel triennio 2014-2016 destinato a innovazione e contenimento dei costi. Anna Trovò, segretaria nazionale della Film Cisl delegata al settore elettrodomestici, ci spiega perché la situazione è decisamente più drammatica di come cerca di farla apparire l’azienda.
Cosa sta succedendo alla Indesit?
L’azienda ha prospettato un piano industriale che, motivato dal calo dei volumi e dalla riduzione del mercato, prevede la delocalizzazione. Tuttavia, la riduzione dell’occupazione è eccedente rispetto al calo dei volumi. Non c’è alcuna proporzionalità. Ammesso e non concesso, in ogni caso, che il calo dei volumi con il quale oggi facciamo i conti sia definitivo e strutturale.
Tutto ciò cosa implicherà?
Se si sposteranno le produzioni in Turchia e Polonia, chiudendo gli impianti di Melano, in provincia di Ancona, e uno dei due presenti in provincia di Caserta, si contribuirà all’ennesimo danno al sistema economico. Il Paese non può permettersi di perdere un pezzo così importante del proprio tessuto industriale. Oltre agli impianti dell’Indesit, ci sono tutte le attività legate alla filiera produttiva e all’indotto che si troverebbero in gravi difficoltà.
Cosa ne sarà dei 1400 lavoratori coinvolti?
Dei 4.300 lavoratori, casomai. La vertenza, infatti, riguarda tutti gli stabilimenti del gruppo. Sappiamo che se chiuderanno i suddetti impianti, ci sarà un effetto a catena che condurrà allo smantellamento complessivo. In ogni caso: i 1400 saranno, in gran parte, tutelati dagli ammortizzatori sociali. Che, tuttavia, hanno un termine. Si tratta, quindi, esclusivamente del rinvio di un caso di esplosione della disoccupazione. La situazione nonostante la sdrammatizzazione dell’azienda, è gravissima. Tanto più se si considera che, puntando sulle politiche attive del lavoro, e mostrando un atteggiamento responsabile, abbiamo già chiuso tre impianti produttivi in tre anni: in provincia di Bergamo, di Treviso e di Torino.
Cosa state facendo per convincere il gruppo a non delocalizzare?
Tanto per cominciare, invitiamo la Indesit ad agire con attenzione nei confronti di un sistema Paese nel quale ha le sue radici. Inoltre, stiamo sottolineando come abbiamo firmato diversi accordi, negli ultimi tempi, per venire incontro alle sue esigenze. Abbiamo, per esempio, spostato le produzione sull’alta gamma, o sugli elettrodomestici d’incasso, aumentato l’efficienza, e migliorato la sicurezza. Insomma, abbiamo favorito le condizioni affinché la produzione diventasse sostenibile. Tuttavia, se l’azienda ha deciso di inseguire il minor costo del lavoro, si entra in un processo senza fine. Non bisogna dimenticare, inoltre, gli effetti a lungo termine.
Quali?
Svuotare il sistema delle sue attività a lungo andare induce il declino del Paese. Per le aziende che delocalizzano questo può determinare un ritorno economico nell’immediato. Ma, a lungo andare, si ritroveranno senza un mercato. In tal senso, va rilevata la contraddizione di Indesit che, da un lato, sposta la produzione lamentando il crollo delle vendite in Italia, ma, dall’altro, non si rende conto che così facendo aumenterà la disoccupazione, calerà il Pil, le famiglie si impoveriranno e le vendite crolleranno ulteriormente.
(Paolo Nessi)