Il dibattito sulle misure del governo per arginare il drammatico aumento della disoccupazione si sta concentrando su interventi di redistribuzione del lavoro, (per esempio, la staffetta generazionale anche come contrappeso all’aumento dell’età pensionabile) o sulla soluzione temporanea a emergenze immediate (vedi il problema esodati e il rifinanziamento della Cig, mentre la riduzione del cuneo fiscale passa inevitabilmente in secondo piano): misure necessarie per la loro urgenza, dettate anche dalla manifesta volontà del governo di dare segnali di intervento in tempi rapidi su temi caldi per prolungare la sua stessa sopravvivenza. Urgenze appunto, ma nulla di strategico che possa favorire insieme crescita e occupazione in modo sostenibile nel tempo. In uno scenario in cui i dati macro sulla disoccupazione, quasi al 13% quella totale (3,3 milioni di disoccupati) e al 42% quella giovanile, sono i peggiori da 35 anni a questa parte.
È quindi altrettanto necessario avviare immediatamente misure realistiche di ampio respiro che portino a crescita coniugata a occupazione nel medio termine (2-3 anni), pena l’autocondannarsi a inseguire, con soluzioni tampone sempre meno efficaci e sempre più dispendiose, una spirale di decrescita che rischia di diventare irreversibile. Infatti, il combinato disposto (l’elenco non è esaustivo) di crisi economica strutturale a livello europeo, alta tassazione del lavoro e dell’impresa, innalzamento dell’età pensionabile e ulteriore irrigidimento del mercato del lavoro in entrata e in uscita dovuto alle ultime riforme, burocrazia e farraginosità nell’applicazione delle norme, complessità contrattuale, alto costo dell’energia, ritardi infrastrutturali e logistici, blocco degli investimenti e dei pagamenti pubblici, malfunzionamento delle agenzie pubbliche per il lavoro e, infine, diga della cassa integrazione in fase di pericoloso smottamento, portano alla “tempesta perfetta” sull’occupazione che vediamo aggravarsi di giorno in giorno, soprattutto in ambito industriale. In un Paese in cui paradossalmente è molto costoso insediarsi per un’impresa industriale ed è tutto sommato relativamente economico dismettere, grazie proprio al soccorso degli ammortizzatori sociali che gravano come un macigno (oltre 20 miliardi di euro all’anno) sui contributi delle imprese e sui conti dello Stato, sempre più spesso solo per allungare l’agonia di situazioni aziendali irreversibilmente destinate alla chiusura.
In sostanza, rispetto ad altri paesi, paghiamo bene chi chiude o se ne va all’estero, e accogliamo male chi intraprende e porta occupazione. Non è infrequente sentire ammettere candidamente da manager di multinazionali che uno dei motivi a favore della chiusura o del ridimensionamento di attività in Italia è l’esistenza e il facile ottenimento della copertura della Cig e degli altri ammortizzatori sociali. Il tutto aggravato dal fatto che le grandi aziende industriali che abbiano ancora la proprietà e i centri decisionali in Italia si contano sulle dita di una mano: il che gioca ulteriormente a nostro sfavore, e in modo non secondario, nelle scelte di dismissione.
Come reagire al declino? Con quali criteri individuare proposte percorribili? E a partire da quali esperienze positive? La situazione che stiamo vivendo di paralisi dell’economia reale (nel paradosso di una contemporanea finanza borsistica ai massimi livelli e di quella bancaria colma di liquidità che non arriva alle imprese) in presenza di un enorme debito pubblico, unita alle limitazioni sul deficit dettati dall’Ue che impediscono “new deal” di casa nostra, impongono alcune caratteristiche alle linee di intervento di una politica industriale realistica per il nostro Paese. Di fatto tali misure dovrebbero contemporaneamente:
Assecondare a nostro vantaggio i segnali, più o meno forti ma reali, di tendenza dell’economia e del mercato del lavoro globale: in questi ultimi anni di piena globalizzazione abbiamo tutti potuto rilevare che certi processi virtuosi difficilmente possono essere provocati, ma solo assecondati e facilitati dai singoli governi. Da una parte l’innalzamento del costo totale della delocalizzazione produttiva (Offshoring), con l’aumento del costo del lavoro, la scarsa fidelizzazione dei lavoratori e le tensioni sociali nel Far East (per esempio, in Cina), l’aumento dei fattori di instabilità e di rischio (in termini umani e reputazionali come nel caso della recente tragedia accaduta in Bangladesh) in vari paesi in via di sviluppo e con basse regolamentazioni del lavoro, l’aumento dei costi e dei rischi logistici per i trasporti intercontinentali, il rischio di perdita della proprietà intellettuale, la corruzione e in generale la difficoltà di comprensione con culture molto diverse, ecc… dall’altra parte, nelle produzioni “Inshore”, una miglior qualificazione del capitale umano e qualità del prodotto, una maggior flessibilità e capacità di risposta in tempo reale alle richieste dei clienti e minori scorte necessarie nelle filiere just-in-time, portano a riconsiderare in molti casi le scelte di delocalizzazione: lo ha già capito, per fare un esempio che ci riguarda, un gigante come Ikea, concentrando in Italia i fornitori di alcuni prodotti;
Essere a saldo complessivo zero, o meglio positivo, per uno Stato con uno dei più alti debiti pubblici del mondo e in cui la spesa per gli ammortizzatori sociali è destinata per circa il 70% al settore industriale;
Misure, almeno le principali e strategiche, che abbiano già dimostrato la loro efficacia in esperienze reali in Italia o altrove, come ad esempio la rilocalizzazione produttiva (Reverse Offshoring o “Reshoring”) avviata con forza dal 2010 in Usa e che ha spinto corporation come Apple, Caterpillar, Ford, General Electric, Google e Whirlpool a riportare in patria alcune produzioni avanzate e high-tech: se il malato è grave e il tempo stringe, non ci si può avventurare in sperimentazioni frutto di teorie partorite in aule accademiche o nei “sancta sanctorum” della burocrazia europea;
Fare leva sui punti di forza della nostra storia ed economia, come l’elevata qualità del nostro capitale umano da tutti riconosciuta, la tradizione imprenditoriale di innovazione, il know-how manifatturiero integrato nei territori dei distretti, il valore del Made in Italy in alcuni importanti comparti particolarmente apprezzato proprio nei mercati emergenti dei Brics;
Semplici da applicare e drastiche negli effetti (Breakthrough Initiatives) tali da influenzare e ribaltare il giudizio dei decisori della localizzazione di un investimento nelle multinazionali, italiane e straniere.
A partire da questi criteri, non può non far riflettere il fatto che le uniche due economie occidentali che stanno reagendo, o comunque resistendo bene, di fronte alla crisi strutturale che le ha investite quanto noi, cioè Germania e Usa, fra le molte differenze hanno certamente almeno un aspetto in comune: puntano entrambe sul settore manifatturiero. L’Italia è ancora la seconda “fabbrica” d’Europa, nonostante la perdita del 25% della produzione industriale dal 2008, anno di inizio della grande crisi (ma già dal 2000 non vi era più crescita) e nonostante, come certificato da Confindustria, dal 2007 al 2012 in Italia è andato distrutto il 15% del potenziale manifatturiero: perché non puntare in modo deciso sul rilancio del settore manifatturiero come priorità strategica di una politica per l’occupazione e la crescita?
Le economie che hanno accettato di ridursi a economie basate sui servizi hanno rischiato di diventare economie di carta e stanno facendo marcia indietro (per esempio il Regno Unito). Risulta evidente ormai a tutti gli osservatori che perdere la manifattura significa nel medio termine perdere anche la ricerca e sviluppo, il design e la creatività che non possono essere separati dall’applicazione pratica: ricerca, progettazione e design, da una parte, e industrializzazione, dall’altra, si alimentano a vicenda. E trainano tutti gli altri settori, come quelli dei servizi all’impresa e quelli finanziari, delle costruzioni e connessi (impiantistica energetica, arredi, ecc.) fino ad arrivare a spronare l’evoluzione positiva della scuola, sia quella professionale che accademica. La ricaduta educativa della valorizzazione del lavoro manuale, così famigliare ai nostri progenitori, oggi è tutta da riscoprire.
In termini di competenze sappiamo che Oltralpe, specialmente in Svizzera e Germania, c’è un consistente deficit di manodopera qualificata in campo industriale, tanto che sono state varate iniziative di attrazione dall’estero di personale già specializzato, come la Job Borse tedesca. Peraltro i paesi confinanti, anche al di là del Mediterraneo, con l’Italia sfruttano la nostra debolezza e stanno cercando di attirare in ogni modo le nostre imprese e i nostri lavoratori qualificati (provocando anche movimenti di protesta dei locali come avviene in Canton Ticino) puntando su semplificazione normativa e velocità autorizzativa, servizi e minor tassazione complessiva per l’impresa, più che sul minor costo del lavoro. Con una certa sorpresa, infatti, constatiamo (cfr. l’indagine sulle retribuzioni europee di Towers Watson), che l’Italia non presenta un costo del lavoro in sé mediamente più elevato rispetto agli altri paesi europei nostri competitor. Il gap si gioca, e pesantemente, sugli altri fattori decisivi per le scelte di investimento produttivo, come, per esempio, i tempi certi di realizzazione dell’investimento.
Come facilitare un processo di reindustrializzazione, con misure che rispondano a tutte le caratteristiche sopra elencate? Strade, a saldo positivo per lo Stato nel breve-medio periodo, ve ne sono molte. A titolo di esempio: incentivi sia per la creazione di nuove iniziative industriali che mantengano in Italia la produzione, sia per il Reshoring di precedenti delocalizzazioni, soprattutto nel manifatturiero avanzato e innovativo, attraverso semplificazione burocratica, tempi rapidi e certi di approvazione dei progetti di reindustrializzazione, incentivi alla riqualificazione di aree industriali dismesse, detassazione proporzionale ai posti di lavoro creati o ri-creati, detassazione degli utili reinvestiti in azienda. Nulla di particolarmente originale, ma tutto focalizzato verso una priorità chiara e strategica: la rinascita industriale italiana.
Si andrebbero inoltre a intercettare esattamente i lavoratori in uscita dalle situazioni croniche di Cig, studiando e incentivando passaggi diretti alla nuova occupazione, con conseguente risparmio sulle spese di welfare per lo Stato, e percorsi di riqualificazione soprattutto “on the job” (perché non estendere in tutta Italia l’uso del contratto di apprendistato non solo per i giovani ma per i lavoratori di qualsiasi età che devono intraprendere sempre più spesso un nuovo mestiere?), riconoscendo all’impresa che subentra la funzione di riqualificazione professionale, sociale e, come nel caso di reindustrializzazione, anche immobiliare attraverso iter autorizzativi semplificati e minori oneri di urbanizzazione. Da questo punto di vista sarà necessario sottrarre armi di ostacolo alla Pubblica amministrazione locale, che in moltissimi casi, spesso per un interesse miope e di corto respiro, pone a carico dei reindustrializzatori oneri economici ingenti e una burocrazia lenta e farraginosa.
Alcuni timidi tentativi di incentivazione, con scarse risorse, sono già stati fatti da alcune regioni: più che le risorse, quello che manca è una massiccia presa di coscienza della centralità del lavoro manifatturiero come elemento trainante dell’economia e dello sviluppo anche del capitale umano, svalutato da una falsa cultura intellettualistica figlia del secolo delle ideologie. E conseguentemente è necessaria una decisa indicazione strategica a livello nazionale, anche in termini di campagna di comunicazione (come sta accadendo negli Usa). Lo Stato potrebbe, con risorse limitate, innanzitutto facilitare l’inizio di un tale processo favorendo alcuni casi pilota importanti che possano fungere da “trigger”, da eventi scatenanti di una nuova industrializzazione, condividendo obiettivi e chiedendo corresponsabilità alle Parti sociali.
Con questo indirizzo strategico di reindustrializzazione si coniuga una nuova e diversa gestione delle ristrutturazioni aziendali che comportino dismissione di siti produttivi ed esuberi di personale. Vi sono casi virtuosi già sperimentati nel nostro Paese (come nel caso dei tre stabilimenti Indesit chiusi recentemente nel nord Italia) in cui è proprio l’azienda che chiude il sito produttivo che sostiene politiche attive, con formule che non aggiungono costi alla ristrutturazione, per favorire la reindustrializzazione e il ricollocamento incentivato del personale, tramite soggetti terzi specializzati e ponendo al centro dell’accordo sindacale non più solo gli ammortizzatori sociali, ma la continuità occupazionale dei lavoratori.
Favorendo il reimpiego del personale, l’azienda trova un beneficio sia economico, riducendo la conflittualità e abbattendo i tempi di implementazione del piano di efficienza, sia reputazionale, perché dimostra concretamente un approccio socialmente responsabile. Parallelamente lo Stato risparmia in ammortizzatori sociali rispetto a casi analoghi dove, di deroga in deroga, dopo diversi anni ci sono situazioni incancrenite di lavoratori costantemente in Cig e mobilità senza alcuna prospettiva e opportunità di continuità lavorativa. Ma soprattutto viene affermato un principio culturale rivoluzionario: che il lavoro ha un valore irrinunciabile per la realizzazione della persona che va ben al di là del suo corrispettivo economico. Quindi non può essere risarcito solo con denaro.
Tali esempi di politiche attive messe in campo dalle imprese dovranno gioco-forza diventare norma anche da noi, come lo sono già in Francia e, in forme diverse, in altri paesi europei: non è né giusto, né più percorribile la strada per cui tali ristrutturazioni siano per la gran parte in carico allo Stato. Rendendo legge un tale approccio lo Stato, oltre che alleggerire il carico sulle proprie casse, favorirebbe il passaggio di personale e know-how da situazioni aziendali senza speranza ad aziende magari piccole ma che possono crescere superando, con un adeguato incentivo, l’esitazione ad assumere e inserendo anche figure manageriali senior così necessarie al piccolo imprenditore per cogliere le tante opportunità che, soprattutto in tempo di crisi, si presentano continuamente.