Dunque, come si è espresso Enrico Letta, una “soddisfazione molto marcata” con “risultati al di là delle aspettative”, per l’occupazione, in particolare quella giovanile. Il risultato più evidente del consiglio Ue, ci dicono i comunicati stampa del nostro governo. “I leader Ue – ha aggiunto il Premier italiano – parlano oggi ai cittadini non con sigle ma con misure che si riferiscono alla loro vita concreta”. Per l’Italia questo significa 1,5 miliardi per l’occupazione giovanile sui 9 complessivi, molto di più dei “500-600 milioni che ci si aspettava”. Tutto bene, verrebbe da aggiungere. Vedremo nel concreto, ci suggerisce la virtù del dubbio. Perché è di risposte concrete che gli italiani hanno bisogno. Dopo troppi effetti-annuncio, dopo ricette più o meno miracolose, con l’unica certezza di statistiche drammatiche che ci inseguono per ogni dove.



Cosa dire, nel concreto, appunto, ai giovani che si stanno diplomando e laureando, e a tutti quelli che cercano e non trovano, soprattutto a quelli che, definiti Neet, hanno smesso di sperare e cercare? Non basta, ovviamente, indicare una cifra messa a bilancio, seppur consistente. Se il parterre normativo rimane lo stesso, se non vengono minimamente scalfiti i poteri corporativi, se ritroviamo sindacati che manifestano per il lavoro, soprattutto per riaffermare il loro ruolo di interdizione, se non ci convinciamo, sopra tutto e tutti, che non si crea il lavoro per decreto, ma offrendo cornici di reali pari opportunità a chi merita, a chi intende mettere passione, a chi pregusta il rischio dell’intrapresa. Liberare, dunque, prima dei soldi, il mercato del lavoro dai troppi vincoli.



Se diamo, ad esempio, un’occhiata veloce allo studio “Education at a glance” pubblicato di recente dall’Ocse, troviamo che, nel nostro Paese, una laurea non è di certo un viatico automatico per un buon lavoro. A tal punto che gli stessi studenti, accorgendosene, sono meno interessati oggi a conseguirne una. La riprova è nella differenza, per dire solo dell’aspetto più scoperto, di remunerazione tra chi ha una laurea e chi solo un diploma, oggi notevolmente ridotta. Questo perché non tutte le lauree hanno, dal punto di vista occupazionale, lo stesso valore, nel senso di troppe lauree foriere solo di sicura disoccupazione. Per cui i giovani sono costretti ad “adattarsi” alla meno peggio. Lo stesso per i diplomi, in termini di “occupabilità”.



Queste situazioni ci dicono della difficoltà, che nessuno a livello politico riconosce e intende affrontare, della scuola di oggi, anzitutto della scuola media inferiore, e poi di quella superiore, non orientanti secondo talento e in relazione a sbocchi possibili. Quindi poco di ausilio non solo all’alta formazione universitaria e post, ma all’intero nostro “sistema Paese”.

Quando inizieremo a riflettere, su questi temi, a partite dalla semplice domanda “quale la scuola migliore per i giovani di oggi”? Senza fermarsi troppo ai risvolti corporativi?

Di fronte a questi problemi aperti, c’è ancora chi si limita al rilievo delle poche risorse previste nel nostro bilancio per il mondo dell’istruzione. Come se la cosa più importante fosse, appunto, questa. Invece, dallo studio dell’Ocse troviamo che la spesa per studente è superiore alla media per le scuole primarie, pari alla media per le secondarie, al di sotto solo per l’università, nonostante l’incremento dei finanziamenti privati.

I tagli degli ultimi anni, nei confronti soprattutto della scuola, hanno comportato l’aumento del numero degli studenti per insegnante e la diminuzione del numero di ore per gli studenti. Dimenticando che, nella realtà, quest’ultima diminuzione è più virtuale che reale, se pensiamo alle ore di lezione di 50 minuti (in alcuni casi anche di 45) degli scorsi anni, di fronte all’obbligo dei 60 minuti della riforma del 2010. Le 36 ore degli istituti tecnici, ad esempio, a 50 minuti prevedevano un tempo-scuola inferiore delle 32 per 60 minuti di oggi. Misteri all’italiana. Meglio, quando la scuola era considerata, soprattutto, un ammortizzatore sociale. Il risultato infatti, come dice l’Ocse, non ha “compromesso i risultati di apprendimento”, misurati dai test Pisa.

Ma la quantità di tempo non può rappresentare il cuore della vita della scuola, pensata nei termini di una reale speranza di futuro per i giovani di oggi. Questa speranza dovrebbe passare anzitutto, è bene ripeterlo, dal ripensamento, ai fini di un reale orientamento, della filiera formativa. Non con riforme di cornice, ma entrando nel merito, adottando, per gli istituti, la governance oggi prevista dagli Its, cioè con fondazioni, già messe in cantiere dal ministro Fioroni, capaci di autogoverno e contrattazioni di secondo livello, con una programmazione rispettosa di standard nazionali, ma con un consistente curricolo locale, per titoli senza valore legale ma vincolati a prove Invalsi e certificazioni delle competenze, forieri di pre-orientamento al segmento successivo, sulla base di test e prove. Una scuola come “scuola della comunità locale”, quindi di diretta responsabilità della conferenza di servizio degli enti locali, in forma sussidiaria ma aperta alla verifica degli standard nazionali.

Una volta ripensata la scuola come parte essenziale della responsabilità di una comunità locale, si tratta di seguire tutte le strade delle pari opportunità del nostro “glocalismo”. Mi viene qui in mente, ad esempio, la proposta di un “Erasmus per il lavoro”, o “Erasmus 2.0” di recente rilanciata dal nostro Presidente del consiglio. Diretta espressione della nuova alleanza tra scuola, università e agenzie per l’impiego. Si tratta dell’edizione aggiornata, potremmo dire, di “Your first Eures job”, cioè del piano europeo per l’inserimento dei giovani al lavoro, con contributi per i colloqui o per il trasferimento in altri Paesi dell’Ue.

Anche l’Erasmus, quindi, andrebbe ripensato, non limitandolo al solo ruolo di supporto all’internazionalizzazione degli studi, ma esperienza-ponte col mondo del lavoro. “Erasmus for all”, così si chiamerà, ingloberà i vecchi Comenius ed Erasmus, e avrà una dotazione di 19 miliardi a partire dal 2014, per una platea potenziale di 5 milioni di giovani. Saranno gli studenti delle superiori, e poi quelli universitari, a beneficiare di questa nuova stagione europea. L’obiettivo è evidente, l’equipollenza dei titoli di studio, se non un vero “diploma comune”. Per l’università saranno potenziate le borse di studio, fino a 2,2 milioni di studenti. Ma un contributo è previsto anche per quegli studenti, sino a 735.000, che vorranno svolgere all’estero una parte della propria formazione tecnico-professionale.

Altre iniziative in cantiere: “alleanze della conoscenza” e “alleanze delle competenze settoriali” per incentivare l’innovazione e l’imprenditorialità, e i “partenariati strategici” per favorire lo scambio di know-how. Per riprendere la Commissaria all’istruzione, Androulla Vassiliou, “un’esperienza di studio all’estero accresce le competenze delle persone, ne favorisce lo sviluppo personale, l’adattabilità e aumenta la loro occupabilità”.

Resta scoperta, a questo punto, una fascia consistente di giovani, dai 18 ai 29 anni, quelli che non hanno raggiunto un titolo di studio superiore o che hanno incontrato più difficoltà a trovare un lavoro. Nei programmi europei per l’inclusione e la coesione sociale, troviamo fondi che il governo italiano, nel pacchetto approvato mercoledì scorso, ha assorbito, nel rispetto comunque dei tre criteri base previsti da Bruxelles: essere disoccupati da almeno 6 mesi, vivere con almeno un familiare a carico, non avere un diploma di scuola superiore. Si tratta di un bonus pensato sottoforma di taglio dei contributi a carico delle aziende che assumono giovani con anche solo una di queste caratteristiche.

Il che, per paradosso, potrebbe dire di una via preferenziale per quei giovani che non hanno conseguito un diploma di maturità, trattati alla pari di altri che hanno, magari, un master. Il bonus è rivolto soprattutto alle regioni meridionali, dove le difficoltà sono maggiori rispetto al resto del Paese.

E per i disoccupati over 29 anni? Il governo ha previsto un secondo bonus, valido per tutte le regioni: le aziende che assumono un disoccupato, giovane o anziano, ancora legato a un sussidio di disoccupazione, potranno incassare la metà del sussidio residuo. In sintesi, iniziative e progetti apprezzabili. Semplici panacee o interventi che provocheranno, prima o poi, riforme radicali del nostro sistema formativo come del nostro approccio al lavoro?

Domande legittime. Tanto legittime, se prendiamo sul serio un recente saggio, “College (Un)bound”, scritto da Jeff Selingo, giornalista americano specialista di tematiche scolastiche. Andrebbe letto in parallelo al volume, anch’esso recente, scritto da Norberto Bottani, “Requiem per la scuola?”, edito da Il Mulino.

Visto il cambiamento radicale del contesto economico, sociale, demografico, tecnologico, si chiede Selingo, ha ancora senso proporre ai giovani un pezzo di carta, un diploma col suo valore legale, percorsi cioè chiusi di apprendimento? A parte, potremmo aggiungere noi, la formazione di base, per la filiera formativa non vale forse più, oggi, l’idea che è la vita stessa la prima scuola per i nostri ragazzi? Cioè talento, curiosità, studio secondo interesse, condivisione in comune, ecc.

Osservando da vicino la crescente demotivazione presente nei ragazzi di oggi, più volte denunciata dai docenti, verso il modello tradizionale di scuola e università, alcune domande dovrebbero sorgere spontanee. Ha ancora senso, cioè, concentrare ingenti risorse, alle superiori e all’università, per titoli di studio che aprono, per i più, alla via della precarietà e della disoccupazione? Perché insistere su percorsi di studio che offrono “skill” non richieste?

Per quella formazione di base, e per la sua valenza trasversale, comunque, la risposta dell’autore a quella domanda sul valore del pezzo di carta rimane positiva. Con mille, però, dubbi. Per questo motivo, andrebbe rivista la rigidità italiana, quella che ha creato una scuola staccata dalla vita reale. Quasi un parcheggio. L’integrazione europea potrebbe, forse, imporci delle novità. Nonostante una politica di fatto indifferente a un’attenta lettura di questi problemi aperti.