Evidentemente, il governo non comprende tra le proprie priorità la revisione della riforma Fornero in tema di pensioni. All’inizio sembrava che le cose stessero diversamente. L’impressione era che le modifiche alla riforma delle pensioni avessero carattere d’urgenza, al punto che Enrico Letta ne parlò nel suo discorso di insediamento. Ora, invece, il sottosegretario al Welfare, Carlo Dell’Arringa, fa sapere che il capitolo sarà riaperto dopo l’estate. Sembra, in ogni caso, ormai assodata la volontà di introdurre un meccanismo di flessibilità che consenta di scegliere quando andare in pensione entro una forbice compresa tra i 62 e i 70 anni. Il dibattito verte, principalmente, sulla proposta del presidente della commissione Lavoro alla Camera, Cesare Damiano: chi deciderà di lasciare il lavoro prima dei 66 anni perderà il 2% dell’importo per ogni anno d’anticipo. Andare in pensione a 62 anni comporterà, quindi, una riduzione dell’8%. Chi, invece, va dopo i 66 riceve un incentivo del 2% per ogni anno di ritardo (8% se andrà a 70 anni). Abbiamo chiesto a Domenico Proietti, segretario confederale della Uil con delega alle Politiche fiscali e previdenziali, come valuta l’evolversi della situazione.
Cosa ne pensa dell’atteggiamento del governo?
Il governo, dopo essersi prodigato in ottimi annunci, dovrebbe finalmente agire. Questi continui rinvii non sono per nulla positivi. Riconosciamo che sul fronte dell’occupazione sono stati mossi dei primi passi. Ora, è necessario adoperarsi anche rispetto alla previdenza. Anzitutto, introducendo la flessibilità, risolvendo la situazione degli esodati e rimuovendo il blocco all’indicizzazione delle pensioni all’inflazione.
In tal senso come valuta la proposta di Damiano?
Siamo contrari. Non ci possono essere altre penalizzazioni oltre a quella già prevista dal sistema contributivo. Esso, infatti, già di per sé prevede che prima si va in pensione e più ridotto risulta il montante contributivo e, di conseguenza, l’importo dell’assegno.
Dell’Arringa ha detto che la proposta Damiano potrebbero comportare, in certi casi, il rischio che le pensioni da 1500 passino a 1000 euro.
Non ho idea dei calcoli effettuati da Dell’Arringa per giungere a queste conclusioni. Consiglieri molta prudenza nell’avanzare queste formulazioni, perché rischiano di generare condizioni di ansia e frustrazione nei lavoratori. Usciamo da un provvedimento che è stata un’enorme operazione di cassa, e non è il caso di dare ulteriori segnali sbagliati.
Il problema è sempre quello della mancanza delle risorse, eppure il governo non sembra ancora deciso seriamente a tagliare la spesa per reperirle.
Sarebbe il caso, infatti, che ponesse le revisione della spesa al primo punto dell’ordine del giorno. Come ormai sosteniamo da tempo, occorre rivoluzionare la struttura dello Stato. Non solo a livello centrale. A titolo di esempio, vorrei ricordare che esistono decine di migliaia di aziende che, all’interno di ciascuna Regione, non hanno ragione di esistere. L’esistenza di una municipalizzata dovrebbe essere giustificata esclusivamente oltre una certa soglia di utenza e di dimensione territoriale. Sarebbe, quindi, opportuno accorparle in base al servizio che forniscono. Di norma, per ciascun settore sarebbe sufficiente una municipalizzata per Regione. Basti pensare a quanto sia insensato aver un’azienda dei trasporti per ogni comune. Si tratta semplicemente di generatori di sprechi, inefficienze e poltrone.
Nel frattempo, la questione esodati è in stand by.
Dobbiamo agire tempestivamente, prevedendo, anzitutto, quanti da qui al 2014 si ritroveranno in questa condizione; a quel punto, occorrerà intervenire con le salvaguardie. Confidiamo in tal senso che gli impegni assunti dal presidente Letta durante il suo discorso programmatico siano rispettati.
(Paolo Nessi)