Premesso che l’effetto della Riforma Fornero sul mercato del lavoro è tutto da dimostrare, che alcuni sui pezzi devono ancora entrare a regime (come la parte dedicata alle Partite Iva) e che comunque sono necessari almeno un paio di anni per formulare dei giudizi su qualsiasi riforma, le poche indagini (non valutazioni) sulla percezione degli operatori sembrano comunque estremamente negative verso questa legge per una serie di motivi: il totale fallimento dell’Apprendistato come trampolino di lancio dei giovani nel mercato del lavoro; l’apertura in alcuni tribunali dello “Sportello Fornero” per effetto di quello che gli addetti al settore chiamano “doppio primo grado”; le modifiche sul contratto a tempo determinato, ovvero “acasualità” e intervallo 60/90 giorni, non sembrano aver prodotto buoni risultati (dall’analisi di flusso, il numero di questo tipo di contratti è sostanzialmente stabile).
Il nuovo Decreto lavoro, ancora al vaglio del Parlamento, non presenta grandi cambiamenti e questo è certamente un bene, perché soprattutto gli investitori stranieri non apprezzano costanti e continue riforme su un tema così delicato come quello del mercato del lavoro. Le norme più discusse sono legate ai contratti a termine, dove sono state “ammorbiditi” proprio i criteri più “rigidi” previsti dalla riforma Fornero volti a ridurre il precariato. Tuttavia, il nuovo contratto a tempo determinato rischia di produrre effetti “negativi” nel lungo periodo, dato che si incentiva la domanda di lavoro verso un contratto alternativo a quello indeterminato. Non si comprende perché, nonostante raccolga consenso sia da un punto di vista accademico che politico, il “Contratto unico del lavoro” non venga realizzato. Il contratto è semplice, prevede degli “exit-free”, ovvero penali chiare e precise sin dalla stipula del contratto che impediscono il ricorso al giudice del lavoro (ad eccezione del licenziamento discriminatorio).
Un secondo tema trattato nel decreto è quello dedicato agli incentivi, che in queste settimane sono stati tra gli argomenti più discussi e forse poco compresi. Infatti, a differenza di quanto scritto su alcuni quotidiani, basta uno (e non tutti) dei “criteri di eleggibilità” (siano privi di impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi; siano privi di un diploma di scuola media superiore o professionale; siano lavoratori che vivono da soli con una o più persone a carico) per accedere ai vantaggi fiscali legati all’assunzioni di giovani in età compresa tra i 18 e 29 anni.
Le risorse messe in campo sono 794 milioni di euro nel quadriennio 2013-2016 (500 milioni per le regioni del Mezzogiorno, 294 milioni per le restanti). L’incentivo per il datore di lavoro è pari a un terzo della retribuzione lorda per un periodo di 18 mesi e non può superare i 650 euro per lavoratore. Si stima che il numero di soggetti che saranno destinatari è intorno ai 30-40 mila, ma c’è il rischio concreto di produrre nei prossimi mesi il “blocco” delle assunzioni, perché le imprese attenderanno i pacchetti attuativi della norma per accedere ai finanziamenti che, data l’esiguità delle risorse, finiranno nel giro di 24 ore.
In molti paesi, le valutazioni sugli effetti nel mercato del lavoro degli incentivi è spesso positiva, anche se le caratteristiche dei beneficiari (soprattutto il livello di istruzione) sembrano rappresentare l’elemento centrale del successo o meno dello strumento. Certamente, data l’esiguità delle risorse e dato che i criteri sono troppo “ampi”, è probabile che si realizzi quanto osservato in Germania con il voucher di intermediazione, dove alla fine si rischia di praticare una “scrematura” dei soggetti più svantaggiati. In altre parole, si collocano in massa ingegneri e statistici a casa da sei mesi, piuttosto che donne con bassa istruzione e con figli a carico.
Sempre per quanto riguarda i giovani, il decreto rimanda a una commissione costruita ad hoc il compito di studiare come realizzare il programma Youth guarantee in Italia: l’intenzione è quella di utilizzare bene questi soldi provenienti dall’Ue, cercando di non “buttarli” tutti in formazione professionale. Questa commissione dovrebbe trovare il modo di trasformare i Centri per l’impiego, che collocano in media il 3% dei disoccupati, in macchine efficienti in grado di “piazzare”, entro quattro mesi, il 100% dei giovani disoccupati che si rivolgeranno ai loro sportelli: risulta banale affermare che questo è letteralmente impossibile. Anche spostando la parte amministrativa verso un call center centralizzando, sviluppando attraverso l’analisi delle fonti amministrative migliori servizi alle imprese e stipulando con le agenzie private programmi blackbox di collocamento, temo si possa puntare al massimo al 10%, che per la cronaca sarebbe un vero “miracolo”.
Non è un caso che una parte delle risorse saranno destinate a programmi di Job creation, con l’obiettivo di realizzare collocamenti di breve periodo in tirocini o stage finanziati dall’attore pubblico. Tuttavia, stando alle analisi dall’istituto IZA in Germania, se i programmi di creazione diretta sono realizzati all’interno dello stesso attore pubblico c’è il rischio di spiazzamento dei giovani più istruiti (i giovani che entrano nel settore di basso profilo pubblico bruciano qualsiasi loro possibilità di affermarsi nel difficile mercato privato).