La rinnovata centralità della disoccupazione giovanile e le relative misure per contrastarla hanno portato l’attenzione mediatica su cosa fare per migliorare l’occupazione. Oggi risulta definitivamente chiaro che i posti di lavoro si creano con la crescita e la competitività delle imprese. La disponibilità aggiuntiva di un “super assegno europeo” da 500 milioni di euro per le politiche del lavoro giovanile come verrà usata? In quali azioni e per quanti posti di lavoro stabili? Con il termine “garanzia per i giovani” (Youth Guarantee) ci si riferisce a una situazione nella quale entro un periodo di 4 mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita dal sistema di d’istruzione formale i giovani ricevono un’offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio. Gli obiettivi che ci si prefigge di raggiungere sono: prevenire gli abbandoni scolastici e promuovere l’inserimento professionale.
Semplice: entro quattro mesi dalla fine della scuola il giovane riceve una offerta di formazione, di tirocinio, di lavoro. Finalità? Portare al lavoro almeno 100 mila giovani. Chi svolge le attività? I 550 Uffici di collocamento (ora Centri per l’impiego) con i 6.600 operatori che dovranno attrezzarsi per accogliere i 300/400 mila giovani interessati. Come verranno sostenuti i centri per l’impiego? Verranno rafforzati con personale aggiuntivo (a tempo determinato o cocopro) e aggiornati i sistemi informativi: altrimenti in quanto tempo si potranno trattare tutte quei giovani? I Centri verranno rimborsati anche senza raggiungere il risultato occupazionale? Nulla trapela circa la possibilità che il rimborso sia correlato al risultato, ovvero che per ogni giovane inserito al lavoro, ad esempio per 6-12 mesi, venga riconosciuto un costo del servizio.
L’introduzione di questa “condizionalità” su una politica del lavoro rappresenta una novità sostanziale per il nostro Paese. Per la prima volta si potrebbe collegare l’azione finanziata verso destinatari deboli con il risultato occupazionale. Sembra una cosa ovvia, ma in realtà non lo è, in quanto la linea di azione sulle politiche del lavoro nel nostro Paese ha sempre privilegiato interventi “senza condizioni”. Che questo sia il punto critico è evidente se consideriamo la composizione della spesa per le politiche del lavoro utilizzando la classificazione LMP (Labour Market Policies) aggiornata al 2011.
Nella classificazione europea le politiche del lavoro vengono suddivise in tre gruppi: servizi per l’impiego e orientamento, politiche attive (formazione e incentivi), politiche passive e prepensionamento. Quindi con le politiche per il lavoro il pubblico interviene in tutto l’arco della vita lavorativa. Le misure LMP coprono interventi finalizzati a fornire alle persone nuove competenze o esperienze di lavoro in modo da incrementare la loro occupabilità o a incoraggiare gli imprenditori a creare nuovi posti di lavoro e assumere disoccupati e popolazione di altri target. Le misure includono varie forme di intervento che attivano un disoccupato e altri gruppi obbligandoli a partecipare in diverse forme di attività in aggiunta alle azioni “minime” di ricerca di lavoro, con lo scopo di incrementare le opportunità di trovare alla fine un regolare impiego.
Di particolare interesse risulta l’analisi della spesa nel periodo 2004-2011 conteggiata per tutte le categorie. Siamo passati da 17.966 milioni di euro nel 2004 a 26.887 milioni nel 2011 (75.048-47.178 in Germania, 44.294-50.136 in Francia, 17.883-41.840 in Spagna). I servizi per l’impiego sono passati da 600 milioni nel 2004 a 501 milioni nel 2011 (4.997-8.873 in Germania, 3.848-5.866 in Francia, 642-1.314 in Spagna). Le politiche attive sono passate da 7.549 milioni nel 2004 a 4.845 milioni nel 2011 (18.815-11.637 in Germania, 12.123-16.086 in Francia, 4.618-7.146 in Spagna). Le politiche passive (incentivi al prepensionamento e al sostegno al reddito) sono passati da 9.817 milioni nel 2004 a 21.541 milioni nel 2011 (51.236-26.669 in Germania, 28.322-28.184 in Francia, 12.624-33.014 in Spagna).
Il rapporto indica che il nostro Paese, tra il 2004 e il 2011, ha rafforzato la spesa nelle politiche passive portandola all’80% in linea con le economie deboli. La scelta dei paesi a economia forte ha privilegiato le politiche attive e i servizi all’impiego (pubblici e privati). Perché nel nostro Paese si continua a polarizzare le politiche del lavoro verso quelle passive “senza condizionalità”, ovvero senza l’obbligo di partecipazione a politiche attive finalizzate alla ricollocazione? Operare sulle politiche passive è più agevole per qualsiasi governo, certamente comporta la non semplice ricerca della copertura di finanza pubblica, ma la finalità sociale garantisce il risultato.
Inoltre, condizionare le politiche passive alla partecipazione a percorsi di ricollocazione con la combinazione di formazione e occasioni di lavoro richiede un servizio universale per l’impiego in grado di offrire occasioni di lavoro. Meglio ripiegare su un sistema di formazione professionale che adegui le competenze senza “condizionalità” occupazionali e introdurre dosi massicce di incentivi all’assunzione per i lavoratori esclusi o a rischio di esclusione. Quindi, se la formazione spesso non viene erogata con una condizionalità occupazionale, tranne nel caso della formazione di base per gli adolescenti che ha performance occupazionali del 70% nelle poche regioni dove ancora esiste, la realtà degli incentivi all’assunzione non va proprio nella direzione desiderata dalle politiche.
Ci viene in aiuto la puntuale analisi di Veneto Lavoro sugli effetti degli incentivi previsti dal Decreto interministeriale del 5 ottobre 2012 con l’iniziativa governativa una tantum riguardo l’occupazione giovanile e femminile. La questione affrontata è la seguente: le trasformazioni e le stabilizzazioni agevolate sono state effettivamente aggiuntive rispetto al trend “normale” di tali eventi? O l’agevolazione si è risolta in un “premio” per scelte aziendali che comunque sarebbero state fatte? Con tale Fondo, che ammontava a 232 milioni, si prevedeva l’incentivazione dalla data di pubblicazione del DM (17 ottobre 2012) fino al 31 marzo 2013 dei seguenti eventi: trasformazioni di contratti di lavoro dipendente a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato; stabilizzazioni di contratti a collaborazione e a progetto o di contratti di associazione in contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato; assunzioni con contratti a tempo determinato con incremento della base occupazionale. I lavoratori interessati dovevano essere: giovani fino a 29 anni; donne di qualsiasi età. Ogni datore di lavoro poteva chiedere l’incentivazione di massimo dieci contratti. Le trasformazioni e stabilizzazioni incentivabili erano quelle con riferimento a contratti in essere o cessati da meno di sei mesi. Il beneficio previsto risultava pari a: 12.000 euro per le trasformazioni e per le stabilizzazioni; 3.000 euro per le assunzioni (4.000 euro se si superano i 18 mesi; 6.000 euro per 24 mesi). I dati noti attestano che oltre 24.000 sono stati i contratti agevolati: in circa il 90% dei casi si è trattato di trasformazioni o stabilizzazioni, che hanno impegnato oltre il 95% delle risorse disponibili.
Il Decreto non ha conseguito risultati sul fronte dell’incremento quantitativo delle assunzioni, mentre ha avuto impatto- come da programma – nell’incentivare il superamento della precarietà, agevolando il passaggio da rapporti di lavoro a tempo determinato o di tipo parasubordinato in rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Il Decreto ha agevolato pure una quota di trasformazioni/stabilizzazioni che sarebbero invece avvenute comunque: esse rappresentano, indicativamente, circa i due terzi degli eventi agevolati. Si ricava che il costo effettivo (comprensivo del sostegno dato “inutilmente”) di ciascuna trasformazione/stabilizzazione aggiuntiva ottenuta corrisponde a circa il triplo dell’incentivazione predisposta. Ogni trasformazione/stabilizzazione aggiuntiva è dunque costata circa 30.000 euro. Abbiamo investito 232 milioni di euro, quasi la metà di quanto disponibile sulla “Youth Guaranteed”.
La tendenza a lasciare che l’occupazione venga creata da automatismi privi di “condizionalità” quali la formazione senza occupazione e gli incentivi a pioggia viene confermata dallo stato degli accreditamenti ai servizi per il lavoro. Evidentemente solo alcune regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli, Abruzzo, Sardegna) riconoscono che i servizi per il lavoro sono cosa diversa dalla formazione e che solamente alcune regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto) abbiano previsto di finanziarla dice di un pregiudizio verso le politiche per il lavoro (diverse dalla formazione). Quale la natura di questo pregiudizio? Inizialmente gli enti che si sono accreditati al lavoro coincidevano con quellii formativi e in aggiunta le Agenzie private per il lavoro. Nel tempo, introducendo il rimborso delle politiche attive con parte fissa e variabile a risultato, sono rimaste prevalentemente le Agenzie per il lavoro.
Esse il placement lo fanno di mestiere e sono pagate dalle aziende per trovare i lavoratori giusti, quindi potrebbe essere opportuno non rimborsarle anche quando operano sul lavoratori svantaggiati. Questa è l’ultima ragione del pregiudizio nei confronti della Agenzie per il lavoro. Questi operatori vivono effettivamente della capacità di incrociare domanda e offerta nel più breve tempo possibile, e ogni giorno mettono al lavoro più di 200 mila lavoratori nelle 2500 filiali che continuano a operare nonostante la crisi. Quando si trattano lavoratori che sono stati espulsi, sono a rischio di espulsione e hanno difficoltà a entrare nel mercato del lavoro, è necessario maggior tempo per “lavorare” queste persone e riportarle a un approccio realistico nei confronti del lavoro: attitudine al cambiamento, rafforzamento delle competenze, capacità di stare di fronte a una realtà difficile, riacquistare fiducia in se stessi e nel mondo attorno a se stessi.
Cosa ci aspettiamo da questa stagione decisiva di politiche del lavoro? Che vengano riconosciute le differenze tra i destinatari delle politiche: facilmente occupabili, moderatamente occupabili, difficilmente occupabili.