Si potrebbe dire che l’Italia è un Paese per vecchi, rivisitando il titolo del celebre film dei fratelli Coen, e forse non è nemmeno necessario scomodare le statistiche demografiche per rendersene conto: basta osservare i meccanismi di funzionamento della nostra società, le incrostazioni corporative, la drammatica fossilizzazione sui privilegi acquisiti, tanto difficili da smontare e che non permettono una reale modernizzazione dello Stato e della società in generale. Il tutto si riflette e viene amplificato dalle scelte politiche e sociali di un Paese in cui raramente vengono considerate le istanze delle generazioni più giovani, la cui rappresentanza nelle “stanze dei bottoni” è generalmente inesistente o, quando presente, assume valore puramente simbolico.
Nelle ultime settimane l’agenda del Governo Letta si è arricchita di una vera e propria “novità”, per essere ironici, nel dibattito politico nazionale: la riforma delle pensioni. Ancora non si sono spenti i riflettori sulla contestata Riforma Fornero, ma già si pensa a una sua rivisitazione con l’obiettivo di renderla più flessibile e meno spigolosa, più equa, si dice. Inutile nascondersi dietro falsi moralismi: è ovvio che qualche tipo di intervento fosse necessario al fine di garantire una sostenibilità credibile, per una voce di spesa che assorbe una quota importante del bilancio pubblico (circa il 30%, rispetto a una media Ue del 16% – dati rapporto Ocse “Pensions at a Glance 2009”), considerando anche il progressivo invecchiamento della popolazione italiana.
Non dimentichiamoci, però, che sulla situazione attuale pesano sicuramente le oggettive considerazioni demografiche, ma certamente hanno un impatto determinante le politiche poco lungimiranti che per decenni hanno scaricato il problema della sostenibilità del sistema pensionistico sulle generazioni future, spesso utilizzandolo come leva e strumento per la creazione del consenso e della base elettorale. Le “baby pensioni” sono solo la punta dell’iceberg, ma sono l’esempio più famoso ed eclatante delle politiche scellerate adottate in passato. Il decreto che le ha introdotte nel 1973 prevedeva per il settore pubblico la possibilità di andare in pensione con un anzianità lavorativa di 14 anni sei mesi e un giorno per le donne con prole, 19 anni sei mesi e un giorno per gli uomini.
La curiosità spinge a cercare di capire l’impatto che un provvedimento di questo tipo può aver avuto e così si scopre che ancora oggi, secondo una tabella elaborata dall’ufficio studi di Confartigianato, quasi 17.000 di queste baby pensioni (su un totale di circa 530.000) riguardano persone che hanno lasciato il lavoro a 35 anni di età. Considerando che l’età media stimata è salita a 85,1 anni, stiamo parlando di più di 50 anni di pensione. Ovvero ci sono cittadini che hanno riscosso in assegni pensionistici tre volte quanto hanno versato in contributi. È vero che la spesa complessiva per le baby pensioni è “solo” il 5% (circa 9 miliari e mezzo) del totale della spesa pensionistica, ma fa riflettere pensare che corrisponda al doppio del costo annuo stimato da Confindustria per tutti i 180.000 eletti del sistema politico, la cosiddetta “casta”.
Diventa difficile spiegare e, soprattutto, giustificare moralmente tutto questo agli occhi dei ventenni e dei trentenni di oggi, che sempre con più difficoltà riescono a entrare nel mondo del lavoro e a garantirsi una contribuzione pensionistica stabile, ma non è facile nemmeno spiegarlo agli attuali cinquantenni e sessantenni, che a colpi di riforme si vedono spostare sempre più in là l’agognato traguardo, in una sorta di rincorsa che a volte assume tratti grotteschi. Tutto questo in un quadro che si viene a creare di crescente scontro e conflitto intergenerazionale.
La Riforma Fornero ha introdotto il sistema contributivo, ciò significa che le future pensioni dei più giovani saranno calcolate sulla base dei contributi effettivamente versati nell’arco della propria vita lavorativa. La gran parte dei pensionati attuali riceve invece pensioni basate sul metodo retributivo, e quindi completamente slegate da quanto effettivamente versato, ma proporzionate agli stipendi degli ultimi anni e quindi tendenzialmente più elevate. Consideriamo che oggi il costo del lavoro in Italia è elevato e poco competitivo, soprattutto a causa dell’ampiezza del cosiddetto cuneo fiscale, cioè della differenza tra quanto paga l’azienda (molto) e quanto riceve il dipendente (poco) e che su questo divario hanno un impatto significativo i contributi previdenziali. Se uniamo i puntini ne possiamo dedurre che oggi assumere lavoratori giovani costa parecchio perché questi devono sorreggere un sistema previdenziale costruito su logiche che non li riguarderanno più e che comunque non sarà in grado di fornirgli un trattamento pensionistico adeguato o paragonabile a quanto goduto dai loro genitori.
A questo punto si inserisce un meccanismo tutto all’italiana che và in parte a riequilibrare la situazione, con figli e nipoti sempre più spesso costretti a richiedere l’aiuto economico di genitori e nonni per riuscire a fare passi importanti nella propria vita. Un meccanismo che probabilmente contribuisce anche a ritardare il momento in cui è possibile allontanarsi dal proprio “nido”, riuscendo a stare in piedi con le proprie forze economiche.
Sono facili da immaginare, ma talvolta anche da osservare, la distorsioni che un meccanismo perverso di questo tipo può innescare. Ad esempio, una mancata responsabilizzazione delle nuove generazioni che spesso possono essere indotte, magari inconsciamente, a pensare di poter sempre contare sull’aiuto economico di qualcuno, oppure l’impossibilità di una piena, libera e autonoma realizzazione personale indipendente dalle benevoli, ma talvolta inopportune, ingerenze dei genitori.
Sarebbe opportuno considerare di intervenire a monte del problema e chi oggi predica maggiore equità sociale nel sistema previdenziale farebbe bene a ricordarsi anche di questi aspetti e di queste conseguenze. Le possibilità di intervento ci sono, ma si scontrano contro la volontà politica e istituzionale di adottare misure impopolari contro lo status quo e le posizioni acquisite. Il tema delle “pensioni d’oro” non è più rimandabile, nonostante il recente altolà della Consulta, che ha bloccato il cosiddetto “contributo di solidarietà” così come era stato impostato. Rimane il fatto che ci sono circa 740 mila pensionati che percepiscono mensilmente dall’Inps oltre 3 mila euro (si tratta di meno del 5% del totale pensionati, che assorbe il 15% circa dell’intera spesa previdenziale) e la questione va affrontata . Inoltre, perché non verificare seriamente la fattibilità di un “contributo di solidarietà” anche a carico delle baby pensioni che presentano uno sbilanciamento così evidente tra prestazioni pagate e ricevute? Così come non sarebbe forse più equo, dal punto di vista generazionale, capire se e come intervenire sullo squilibrio così marcato e sul differenziale che si verrebbe a creare tra chi riceve una pensione calcolata con metodo retributivo e chi la riceverà calcolata con metodo contributivo?
Il Governo sta ragionando su altri interventi correttivi della Riforma Fornero, quali maggiore flessibilità in uscita dal lavoro e la cosiddetta staffetta generazionale, provvedimenti che nascono con le migliori intenzioni, ma la cui efficacia è tutta da verificare. Si tratta però di interventi che non risolvono in maniera strutturale uno squilibrio generazionale che si fa sempre più marcato nei fatti e nei numeri, ma di cui spesso nemmeno i giovani riesco ad avere piena coscienza, così naturalmente focalizzati e concentrati sull’inserimento nel mondo del lavoro, sul costruirsi, passo dopo passo, la propria vita.
In un mondo che sempre più andrà vissuto alla giornata, difficilmente il pensiero arriva così lontano da riuscire a ragionare seriamente e consapevolmente di qualcosa che si percepisce così lontano, sbiadito e indefinito, ma che potrebbe riservare sorprese poco piacevoli alle giovani generazioni di oggi. Il futuro potrebbe essere così beffardo con queste generazioni, al punto che, quando arriverà il loro momento, l’Italia potrebbe davvero non essere più un Paese per vecchi.
In tal caso tanto di cappello, vorrebbe dire essere riusciti a cambiare qualcosa che oggi appare marmoreo e inamovibile e forse aver salvato un Paese dal sicuro declino. Con il rammarico che, per queste generazioni, sarebbe forse l’ennesima beffa.