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Come emerge da numerose ricerche, i giovani italiani non amano molto l’idea di cimentarsi lavorativamente con le aziende del nostro Paese il cui numero di dipendenti sia inferiore a 15. C’è, però, un piccolo problema: esse costituiscono circa il 97% del totale delle imprese operanti sul nostro territorio. Posto dunque che, inevitabilmente, almeno una parte di loro dovrà farci i conti e che le stesse aziende dovranno imparare a convincere i nostri ragazzi e a investire sulle loro attese e competenze – pena la scomparsa di buona parte del nostro tessuto economico – sembra importante domandarsi quali siano, oggi, le principali criticità alla base di questo grave fenomeno. Si tratta di domande aperte, cui non è però più possibile non prestare attenzione.



Occorre innanzitutto chiedersi come le piccole e medie imprese possano tornare a essere attrattive e come debbano comportarsi per comunicare adeguatamente le loro peculiarità positive. Senza giungere a questo punto, ben difficilmente i nostri giovani, che talvolta vivono di “miti” sulle multinazionali e sono spesso condizionati dall’idea di successo dettata dai media, potranno accostarsi con curiosità e attenzione alla maggior parte delle imprese italiane, che pur costituiscono il tessuto che, ancor oggi, tiene faticosamente in piedi tutto. Inoltre, c’è da domandarsi se le nostre aziende abbiano consapevolezza dell’importanza strategica, per loro stesse e per tutto il sistema-Paese, che possono avere gli investimenti in formazione necessari per far crescere professionalmente i giovani, e se conoscono il modo con cui sviluppare e gestire adeguatamente percorsi efficaci ed efficienti. Senza una tale convinzione – e i necessari supporti – sembra infatti impossibile, oggi, vincere la sfida della competitività, che ha come unica strada possibile quella di crescere nella propria capacità di generare valore.



Infine – e ancor più profondamente – c’è probabilmente persino da chiedersi quanta autocoscienza vi sia da parte delle Pmi circa le proprie, importantissime, conoscenze tecniche e di mercato. Asset, questi, che sarebbe davvero disastroso dissipare, perché costituiscono una delle caratteristiche distintive del nostro Paese in termini di know-how e di posizionamento internazionale.

Tutte queste criticità difficilmente potranno trovare risposta se le nostre imprese non verranno aiutate a crescere e, nel breve, a “fare rete”. Fatto, questo, ancor più decisivo in un frangente come l’attuale, in cui regna sovrana la sfiducia sul futuro. Prese singolarmente, infatti, le nostre aziende – già deboli a livello strutturale e ancor più affaticate dal contesto economico – da una parte si sentono isolate e, dall’altra, rischiano di scontare una crisi di sfiducia, che potrebbe addirittura togliere loro anche quella residua, ma fondamentale, baldanza che le ha contraddistinte per molti anni e ha consentito loro di essere un prezioso motore di sviluppo per il nostro Paese.



Ecco dunque la prima emergenza: rimettere in moto le imprese aiutandole a trovare la necessaria fiducia. Strettamente connessa con la seconda, che è quella di aiutarle a fare sistema. Come? Attraverso il supporto di corpi intermedi proattivi e responsabili; così che le nostre Pmi, ricchissime di potenziale ma povere di metodo e sistematicità, possano maturare, eventualmente crescere ed in ogni caso tendere ad essere competitive e capaci di paragonarsi con i più elevati standing internazionali. Se, infatti, l’attrattività aumenta, allora può anche crescere con essa il desiderio di un reciproco investimento tra imprese e giovani, quanto mai auspicabile per consentire al Sistema di tornare a generare sviluppo.

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