Expo 2015 Spa, la società che dovrà gestire l’Esposizione universale di Milano, grazie a un accordo coi sindacati potrà stipulare 800 contratti di lavoro improntati a una maggiore flessibilità, in deroga quindi alle attuali norme. Enrico Letta ha già parlato di un’intesa che può diventare “modello nazionale”. Per Maurizio Del Conte, Professore di Diritto del Lavoro all’Università Bocconi di Milano, si deve fare di più, puntando sulla produttività e su rapporti di lavori più dinamici.
Questo tipo di contratto sarà uno strumento utile?
Si tratta di un accordo aziendale che sarà sicuramente utile per i lavoratori dell’azienda Expo. Non è un accordo quadro che definisce in via generale le regole per l’Expo.
È la strada giusta?
A mio modo di vedere, sì.
Perché?
Perché attraverso la contrattazione collettiva si può andare a vedere quelle che sono le esigenze specifiche di un grande evento come Expo e, attraverso la contrattazione di secondo livello, fare una serie di deroghe alla disciplina generale che aiutino a far fronte alle necessità derivate da una manifestazione assolutamente eccezionale.
Lei quindi è favorevole?
Sono favorevole al metodo. Credo che a questo punto però si debba fare un passo in più.
Quale?
Le Parti sociali dovrebbero avere il coraggio di fare un accordo che riguardi in generale tutti i rapporti di lavoro che in qualche modo, direttamente o indirettamente, avranno a che fare con questo evento. In questo modo andremmo molto al di là dei numeri tutto sommato limitati per i quali si prevede l’applicazione dell’accordo.
Non è già così? Nell’accordo si parla di imprese dell’indotto…
In realtà, solo di quelle che lavorano con la società Expo. Quello che si dovrebbe fare, quindi, è un accordo territoriale, o comunque legato all’evento, possibilmente valido per tutta l’area lombarda che riguardi tutti contratti del periodo che va da qui fino all’Expo. Mi spiego come un esempio.
Prego.
Immagini tutto quello che sarà il turismo, l’accoglienza, lo spostamento delle merci. Credo che tutto questo debba essere ugualmente regolato secondo un accordo speciale, fatto ad hoc per questo evento.
Letta ha parlato di “modello nazionale”. Come può un accordo nato per un evento così specifico diventare un modello per future intese su scala nazionale?
Qui a Milano si sono sempre fatte sperimentazioni che, avendo ottenuto buon esito, sono state poi replicate su scala nazionale. Bisogna vedere che frutti darà la sperimentazione. C’è anche un altro aspetto da approfondire.
Di cosa si tratta?
Sostanzialmente quell’accordo regola la flessibilità in entrata. Si parla di contratti a termine e di apprendistato. Non si parla però di flessibilità funzionale.
Cosa intende professore?
Nell’accordo non si parla di mansioni, di quello che è il funzionamento del rapporto di lavoro. Che a mio modo di vedere è il tema più importante. Soprattutto se ragioniamo in termini che vanno al di là dell’Expo. In altre parole, credo si debba fare dell’altro.
Cosa?
Un accordo che, partendo dal territorio, sperimenti forme di flessibilità che riguardano soprattutto la funzionalità del rapporto.
Che caratteristiche dovrebbe avere un accordo del genere?
Dovrebbe prevedere lo spostamento di lavoratori da una sede all’altra, mansioni fungibili, maggiori possibilità per le imprese di riorganizzare la produzione senza ridurre il personale, ma utilizzandolo meglio. In altre parole, un accordo che dia fiato alle imprese. Che oggi hanno un problema maggiore con la produttività, e non con la licenziabilità e la flessibilità dei lavoratori cose che hanno già.
Come si risolve il problema della produttività?
Il vero problema è che abbiamo un lavoro molto ingessato, legato a contratti nazionali molto vecchi, mentre sono ancora poco diffusi i contratti di secondo livello che si occupano di questi profili specifici. Sindacati e imprese, con un atto di coraggio, dovrebbero puntare su questa rivoluzione culturale.
In cosa consiste questa rivoluzione culturale?
Nel superare un modello del lavoro sempre uguale a se stesso, così come è fissato dal codice civile all’articolo 2103. Che stabilisce che i lavoratori si possono spostare ad altre mansioni purché equivalenti a quelle svolte in precedenza. Immagini invece un rapporto di lavoro dinamico.
Come sarebbe regolato?
Sarebbero i contratti collettivi stessi a stabilire che il lavoratore si può muovere, può cambiare mansioni, può crescere con il cambiamento tecnologico dell’azienda, ha il dovere di spostarsi quando c’è la necessità di creare occasioni di lavoro altrove rispetto al luogo di lavoro originario. E così via.
Un traguardo lontano?
La sfida oggi passa attraverso la produttività, non attraverso i contratti a termine. Che restano una cosa molto importante per evento di durata limitata come l’Expo. Però bisogna guardare oltre.
In quale direzione?
Dobbiamo uscire dall’idea dell’emergenza e guardare invece a un rapporto di lavoro che è strutturalmente competitivo perché strutturalmente flessibile, ma anche strutturalmente stabile. Se riusciremo a coniugare la stabilità del rapporto con la flessibilità all’interno del rapporto, io credo che riusciremo a recuperare dei punti sui nostri concorrenti europei.